uno stato libero

Sono nata a Palermo. Non la Palermo livida o sguaiata dei servizi televisivi di cronaca e di costume. Nemmeno quella snob e salottiera delle ville liberty e dei circoli. Ho abitato in un attico spazioso e moderno a due passi dal centro, con le finestre sul tetto del teatro Politeama, di ferro e vetro. Palermo è una città che puoi girarla come turista anche se ci sei nato, perché ha angoli sconosciuti e segreti che si rivelano solo a chi ha tempo di vagabondare senza meta, con gli occhi incollati sulle vetrine delle librerie o sulle bancarelle di cose usate, o sulle balate bagnate di pioggia per non scivolarci sopra.

I miei genitori, venticinque e ventisette anni alla mia nascita, erano entrambi orfani. Architetto e psichiatra. Sono cresciuta senza nonni, senza pranzi della domenica, senza troppe tradizioni. La domenica si pranzava fuori, a volte in quel bar Mazara dove Tomasi di Lampedusa scrisse il Gattopardo. Non si pregava né si andava a messa. Si mangiavano surgelati, pizza, ogni tipo di cibo strano, ipercolorato e artificiale, veloce da cucinare o spesso comprato pronto e amato da noi bambini. Mio padre detestava stare seduto a tavola e così eravamo liberi di alzarci appena finito di cenare, in compenso mia madre chiedeva che stessi dritta e composta per quei pochi minuti. A Natale si viaggiava.

Non ho mai avvertito che, in quanto femmina, mi fossero richieste cose specifiche o altre negate. Ero tenuta a dare il massimo sempre, in ogni occasione e niente che non fosse il massimo era accettabile, per mia padre; possibile, per mio padre.

La mancanza dei nonni era compensata da una grande quantità di zii e zie. Che io mi ricordi, mi hanno sempre parlato come ad un'adulta: cose come il privilegio della borghesia, la doppia natura di Gesù, la legge di gravità, lo scorcio prospettico non ho dovuto aspettare i libri di scuola per saperle. Nei miei disegni di bambina mia madre mi correggeva la prospettiva, conoscevo ovviamente l'uso dello stetoscopio, del martelletto per misurare i riflessi e il modo per sentire il polso e quante pulsazioni fossero normali e cos'è un'extrasistole. Ma anche il test di Rorschach (zia psicologa), la partita doppia (zia ragioniera della Rinascente), le dosi della crema pasticciera (zia lettrice della Cucina Italiana). Che il sole non si muovesse e la terra ci girasse sotto i piedi era un'ovvietà che mi fu spiegata ben prima che sapessi tenere in mano una matita e non mi fu mai fatto cenno a Babbo Natale, Befana, Fatine dei denti e roba simile. Avevo un libro illustrato dove chiaramente si spiegava come nascono i bambini. Casa mia era un avamposto dell'Illuminismo.

Tutte le cose sono fatte di atomi, anche se non lo vedi... Esistono cose piccolissime, come i microbi che noi non vediamo - per esempio su questa moneta - e cose grandissime, come la Via Lattea

Allora forse - penso - nella Via Lattea c'è uno zio e una nipote che guardano una moneta, su cui ci siamo noi, microbi. Potremmo essere su una moneta e non saperlo? Una moneta gigante...

e il pensiero del piccolissimo e del grandissimo dura giorni e giorni.

Mia madre era un'estrosissima architetta. Non usava portafogli ma una busta di plastica come quelle che si usavano per mettervi lo spazzolino e il dentifricio; firmava con una penna stilografica ad inchiostro verde; avevamo una cinquecento bianca di cui aveva perso da tempo la chiavetta di accensione e che faceva partire con strumenti di fortuna, come un'abile scassinatrice. Non la posteggiava: la abbandonava, fiduciosa che altri l'avrebbero spostata se avesse dato impiccio. Non si contano le volte in cui perse le chiavi di casa e per entrare bisognava scassinare anche la porta di casa; incombenza quella, del portiere o di altro professionista chiamato in fretta e furia. Nell'ingresso, incongruo, troneggiava il suo tavolo da disegno e un meraviglioso carrellino arancione pieno di matite, trasferibili, squadrette, pennini, inchiostri e meraviglie assortite, in splendido disordine.

Mio padre era un silenzioso psichiatra, bello, amante di tecnologia e di design - ancora piango per non aver salvato le sue radio Brionvega, il televisore bianco, una lampada da terra in vetro ondulato - lettore di ogni quotidiano, crudelmente ironico con tutte le persone ingenue e sprovvedute, cui faceva credere l'impossibile. Nei suoi dintorni c'era sempre un mozzicone di sigaretta, cenere, un cruciverba iniziato, resti di cibo, appunti minutissimi su chissà cosa presi su una striscia di giornale del giorno prima, sulla faccia saputa di Andreotti o sulla cronaca di qualche Juve-Inter. Tornava a casa carico di regali (si usava a quei tempi, pagare "il dottore" con regali di varia natura). Ricordo: conigli, formaggi, biscotti, lavori di uncinetto, dipinti, vini e liquori che non beveva essendo astemio.

Le case degli altri bambini, quando ne conobbi, il loro modo di vivere, le loro famiglie, mi parevano strani e affascinanti. Un certo ordine però mi cominciò a sembrare cosa da non disprezzare. Come anche il modo mieloso e sdolcinato con cui si parlava agli altri bambini, i comandi che venivano impartiti loro: "lavati i denti", "fai i compiti". Roba inaudita. Non avevo mai pensato né che si potesse essere coccolati e vezzeggiati né che ci fossero cose che si dovevano fare.

Dunque, c'erano - delle cose da fare - ogni giorno.

E sia. Iniziai a fare i compiti e a lavarmi i denti. Trovai un capezzale e provai a dire qualche preghiera, la sera. Mi parve sensato anche rifarmi il letto, la mattina. Cominciai a fantasticare di costruirmi un'enclave di ordine in quel caos di casa, uno stato indipendente di Cristiana nel mondo sui generis di casa Caserta. Certo, mi piaceva sapere le cose - non escludo che fossi io a non credere a un panciuto signore vestito di rosso che portasse regali ai bambini e rendessi impossibile raccontarmela! a mia sorella dopotutto fu raccontato che i tori alla corrida non morivano veramente e lei ci credette - ma mi piaceva anche capire come cavarmela nel vasto mondo in cui ero sola con bizzarri pensieri e fare i compiti era un'idea, per cominciare. Quanto alle coccole e ai vezzeggiativi, a casa mia si prendeva in giro chi si esprimeva in quel modo!

Cristianina” - qualcuno aveva detto – e risate…

Dunque, ci sono cose che mi sono totalmente estranee.

Radicamenti che non ho e non mi mancano. Esempi, di come volevo essere e di quello che volevo fare, che mi sono andata a cercare. E il desiderio, precoce, di poter disporre della mia vita, la cui possibilità ho sempre potuto toccare con mano.

Essere uno 'stato libero', dappertutto.

E, se anche fosse possibile, non cambierei quel modo fuori dal comune in cui sono cresciuta (molto meno mia sorella e mio fratello, più piccoli, che hanno sperimentato molta più normalità e a cui non si spiegava la natura dell'atomo a quattro anni. O forse quella spiegazione la ascoltarono distratti e non li cambiò? oppure il loro disinteresse distolse un qualche zio da quella missione epicurea? non lo so proprio...).

Non darei indietro quella sensazione di essere un foglio bianco in cui scrivere qualsiasi cosa volessi, essere qualsiasi cosa volessi. Pasticciera e ricercatrice, regolata e sregolata, sognatrice e pragmatica. E forse, in qualsiasi famiglia, sarei stata come quel mio alunno pigro e intelligente, lettore accanito e studente svogliato, di cui il padre mi disse: “noi non lo capiamo, questo nostro figlio”.

Emanuela Pitassi

Professoressa di Scienze e Tecnologie Informatiche | Project manager | UX & Web designer

2 anni

Scrivine un romanzo…lo leggerei avida!

Rosa R.

Servizi Digitali

2 anni

Bellissimo, non so perché ma mi ha commosso 😭

Carla Caputo

Insegnante. Progettazione servizi alla Persona. HR Manager

2 anni

Grazie per averci regalato questo spaccato di vita così intimo e suggestivo.

Domenica Berta

HR Consultant | S&you Italia | Synergie Italia | Talent Specialist | Sales | Brand Ambassador | Account Manager | HR Specialist | Human Resources | Psychologist

2 anni

Che bel racconto, l'ho letto con gusto. Ma esiste davvero l'educazione.. consueta? :)

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