The Walk
Chi è fiero della propria paura osa tendere cavi sui precipizi; si lancia all'assalto dei campanili; allontana e unisce le montagne Ecco il viaggio da fare: alzati quando il filo si mischia alla carta del cielo.
Philippe Petit
Il neuroscienziato e filosofo Sam Harris, nel descrivere il processo della meditazione Vipassana, offre l’esempio della camminata sulla fune.
“ La pratica della mindfulness è straordinariamente semplice da descrivere, ma non è in alcun modo facile. […] Quindi, le semplici istruzioni fornite qui sotto sono analoghe alle istruzioni su come camminare su una fune tesa — le quali, suppongo, suonerebbero circa così:
- Procuratevi un cavo orizzontale in grado di sostenere il vostro peso.
- Rimanete in piedi su un capo del cavo
- Fate un passo in avanti, mettendo un piede immediatamente davanti all'altro.
- Ripetete la procedura.
- Non cadete."
(Traduzione dello scrivente)
Le istruzioni di qui sopra rappresentano — in teoria — il processo iterativo per camminare su una fune con successo.
Più facile a dirsi che a farsi, giusto?
Harris infatti nota argutamente come il punto cruciale risieda nell'implementazione degli step da 3 a 5 — il problema della pratica della meditazione infatti, continua l’autore, non risiede nell'avere dei pensieri in sé, ma nel pensare senza essere consapevoli di pensare. Il che ci porta a “cadere” ripetutamente dal cavo.
Se io vi proponessi un corso per equilibristi il cui curriculum fosse composto solamente da lezioni frontali, proiezione di slide, e quiz a completamento mi guardereste per lo meno con un certo sospetto. E a ragione, direi.
Eppure, quanti corsi di formazione linguistica seguono esattamente lo stesso iter?
Questo modo di operare nasce parzialmente dall'errore percettivo che il progresso nella formazione linguistica possa nascere su un piano puramente logico e che attraverso la mera comprensione mentale del perché e del come le regole funzionano (o dovrebbero funzionare) sia possibile poi implementarle con successo in uno scenario ad alto stress.
Quando ci spostiamo da un piano astratto e ci muoviamo sul piano operativo, appare evidente come la comprensione puramente mentale di un processo non è una condizione necessaria né sufficiente per la padronanza dello stesso.
Partendo da questa immediata considerazione empirica, torniamo un istante al nostro allenamento sulla fune. Supponiamo che l’istruttore, dopo avervi illustrato con successo il processo da 1. a 5. (quella che viene comunemente indicata come conoscenza dichiarativa) vi proponga successivamente di camminare su un cavo teso a qualche decina di cm da terra (la pratica dello slacklining).
Vediamo facilmente che in assenza di pratica pregressa, non potremo fare altro che cadere, almeno inizialmente. Ma con il tempo, da soli o con l’aiuto una guida esperta, impareremo l’importanza della postura, della direzione dello sguardo, e della gestione dell’equilibrio, specialmente quando avremo la percezione di cadere: sapremo agire in maniera proattiva.
Una volta acquisite queste competenze (definite come procedurali, legate agli aspetti moto-sensoriali inconsci), potremmo pensare di essere diventati dei funamboli provetti. Ma sarà davvero così, in ogni situazione?
Immaginiamo una modifica al seguente scenario: dovremo camminare sempre su una fune o nastro, sempre a qualche decina di centimetri da terra, ma con una folla di persone che ci osserva. Sarà la stessa cosa? Per molte persone non lo è.
Infatti, la percezione di un giudizio esterno — o peggio, l’internalizzazione dello stesso — è uno degli indicatori che più spesso sono correlati ad un abbassamento della performance.
Ma alziamo l’asticella ancora un po’ (pun not intended) e pensiamo ora di dover fare la stessa operazione, stavolta però a 100 metri da terra. Quanti di noi riuscirebbero ad applicare le competenze procedurali precedentemente acquisite? Veramente pochi, forse nessuno, almeno immediatamente.
Forse l’ultimo esempio può sembrare estremo, ma gli effetti del giudizio sociale sul nostro organismo sono spesso equiparabili alla percezione di un pericolo reale, come quello di cadere da una grande altezza. E’ da notare come un importante studio abbia evidenziato come il dolore fisico e quello causato dal rifiuto sociale condividano lo stesso substrato neurale.
Ne consegue quindi che un qualsivoglia training linguistico che pretenda di essere davvero efficace e non possa prescindere dal riconoscere e dall'affrontare con successo i veri blocchi alla performance.
Una lezione tradizionale con un libro e lavagna/slide opera a livello di competenze dichiarative, che purtroppo non sono condizione necessaria nè sufficiente per risultati tangibili in termini di acquisizione linguistica.
Delle sessioni che usino tecniche pedagogiche mirate operano principalmente sulle competenze procedurali, che dovrebbero occupare un posto centrale e non periferiche in qualsiasi percorso, specialmente in ambito aziendale. Purtroppo, spesso queste competenze rimangono confinate al setting dell’aula, e non sono sempre trasferibili in una situazione del lavoro.
L’empowerment, con la sua modalità orientata al processo permette una nuova esperienza riparativa, portando il trainee a quello che è stato chiamato ‘flow state’ da Mihály Csíkszentmihályi: uno stato in cui sussistono benessere, coinvolgimento e gratificazione.
Il processo di empowerment non si sostituisce quindi alle metodiche esistenti, ma le integra e le completa. Inoltre rappresenta il necessario catalista perché queste possano essere davvero efficaci in scenari incerti e sotto pressione.