Datemi un martello; che cosa ne vuoi fare ?
Certo, un incipit che prende a prestito parte del testo di una celebre canzone di Rita Pavone, peraltro liberamente inspirata a “If I had a hammer” di Pete Seeger, potrebbe non sembrare il miglior modo per parlare di ciò di cui voglio parlare, ma personalmente credo che gli spunti esistano per essere colti, anche quando apparentemente sono quanto di più lontano da ciò a cui, invece, danno l’abbrivio.
Credo però concordiate con me che l’estratto dal brano evidenzia due aspetti fondamentali del significato - che è poi ciò di cui voglio parlare - e, precisamente, la sua attribuzione e ciò che la determina, riassumendo, in una breve frase, l’essenza del problema - ammesso che di problema si tratti - e cioè, come peraltro ben riassunto da Wittgenstein, che nelle sue “Ricerche filosofiche” ci ricorda che “Il significato è l’uso”, che questo non è una proprietà strutturale di un oggetto, di un concetto, legata indissolubilmente ad esso, come ne fosse un tratto ontologico, quanto piuttosto un che di dinamico, un qualcosa che lega l’oggetto stesso allo specifico contesto nel quale si trova gettato e nell’esatto momento in cui ciò avviene.
Il martello, quindi e tanto per rimanere in tema, ha un significato che dipende da ciò che se ne vuole fare, un uso che è sempre qui e adesso, a prescindere dall’invarianza del soggetto che ne fa uso (oggi potrei voler attaccare un quadro, domani potrei volermi difendere da un aggressore).
Ora, pur lasciando da parte il nostro martello, dovremmo comunque sempre avere in mente che le stesse considerazioni valgono per i dati, che, esattamente come accade per il loro valore (tema sul quale ho fatto le mie considerazioni in questo articolo), traggono il loro significato in base a come sono usati e non, al contrario, da una sorta di loro proprietà, immutabile nel tempo.
Questo, peraltro, vale indipendentemente dalla loro complessità e, anche se sarebbe portati a pensare che più un dato è articolato, tanto più il suo significato ci appare definito, poco incline ad essere soggetto a quell’ineluttabile soggettività di giudizio del singolo. Non penso sia così e, anche se sicuramente credo si possa postulare una certa correlazione tra complessità del dato (nei termini della forma proposizionale che lo definisce) e consenso sul suo significato (qui il contesto di riferimento è l’ambito aziendale nel quale i dati prendono vita), ritengo si debba accettare, giocoforza, che tale correlazione non possa mai essere perfetta e che rimanga, invece, sempre una zona d’ombra, che può essere rischiarata solo dall’uso del dato stesso. Si pensi a una dato complesso e articolato come può essere, ad esempio, il “cliente”: lo stesso cliente, con tutti i suoi elementi che lo caratterizzano, avrà un significato ben diverso se lo uso per un’analisi sul rischio di passaggio alla concorrenza, per determinare il valore potenziale dell’azienda in un’ottica di quotazione sul mercato azionario o, infine, come possibile candidato a diventare un Influencer per i prodotti che l’azienda vende.
In sostanza, quindi, ogni dato è suscettibile di una pluralità di significati, difficilmente prevedibili a priori, cosa che suggerisce che qualsiasi sistema di Data Management debba prevedere la possibilità di catturare tale dinamicità, consentendo a chi i dati utilizza, non solo di attribuire a essi uno specifico significato, ma di farlo in modo formale, evidente, perché nulla rimanga solo nella mente di chi esercita questa libertà ma, al contrario, che questa attribuzione si realizzi in un qualcosa che vada progressivamente ad arricchire quanto già definito, che vive solo nella sua continua evoluzione del corrispondente significato, nel suo continuo adattamento al mondo del quale ne sono rappresentazione, adattamento senza il quale sarebbe inevitabilmente destinato all’oblio.
Il significato è come un fiume, impetuoso, in grado di alterare la forma dell’alveo nel quale scorre, ma anche di adattarsi alle modifiche che altri a tale alveo fanno. È proprio questo continuo fluire che consente al significato di adattarsi a ogni cambiamento del mondo verso il quale è diretto ma, entro certi limiti, anche di essere fautore di tale cambiamento, perché significato e significante vivono in una continua e osmotica interazione e ogni cambiamento nell’uno porta inevitabilmente in un cambiamento dell’altro.
Significato, rappresentazione e realizzazione, pertanto, e non una classificazione meramente descrittiva, che catturi esclusivamente la componente intensionale, ma che evidenzi anche il legame con quella estensionale, perché l’uso si caratterizza proprio da tale legame, creando una corrispondenza tra ciò che voglio osservare e ciò che realmente osservo, tra ciò che vorrei fare e ciò che effettivamente faccio.
Una rappresentazione attiva, potremmo dire, che consenta di passare, armonicamente, dall’intenzione alla sua realizzazione, perché senza questa caratteristica, sarebbe come andare in una biblioteca e scoprire che il catalogo, pur descrivendo tutte le opere presenti, non riporti il posto esatto negli scaffali dove ogni singola opera è riposta, creando una pericolosa frattura tra i voler fare e il poterlo fare, causando detrimento del ruolo stesso del catalogo.
Provando a concludere, direi quindi che abbiamo bisogno di un sistema sufficientemente flessibile da consentire la rappresentazione di qualsiasi dato e, per ciascuno, di gestirne le eventuali derivazioni, che altro non sono che l’espressione, dei diversi Data Consumer, del significato che ad esso attribuiscono in relazione alla loro intenzionalità del momento. Dobbiamo anche pretendere che tale sistema di rappresentazione sia attivo, nel senso descritto sopra e che, in tale gestione della relazione intensione-estensione, abbia una capacità di piena tracciatura, perché la conoscenza della genesi di ciascun dato e di ciascuna sua caratteristica (o attributo) è condizione necessaria affinché in esso si riponga quella necessaria fiducia nel momento in cui se ne faccia uso.