È tutta un’altra storia
“La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo […] è […] pieno di «attualità»” – diceva Walter Benjamin nel 1938 nelle sue Tesi di filosofia della storia: “essa è un balzo di tigre nel passato” che “ha luogo in un’arena dove comanda la classe dominante” (Tesi XIV). Poi è venuto Foucault, tra gli altri, ad avvertirci che questa opera di appropriazione del passato e di realizzazione in esso dell’edificio storico da parte dei gruppi dominanti avviene innanzitutto nel campo di forze del Discorso, dove viene fatta prevalere una certa terminologia invece di una qualunque altra, dove di ogni singolo termine corre una definizione codificata, dove anche le frasi somigliano spesso a formule che si impongono automaticamente nella mente e sulle labbra.
Ho passato istintivamente in rassegna questo lascito culturale e critico, a quanto pare inutile, di due grandi intellettuali del nostro Novecento quando ieri, pieno di sconforto, ho letto il testo funambolico della risoluzione ONU che, su pressione degli Stati Uniti, invece che imporre l’immediato cessate il fuoco chiede a entrambe (!) le parti in conflitto (“parties to the conflict”) di consentire e facilitare (“allow and facilitate”) l’assistenza umanitaria per la popolazione civile della Striscia di Gaza. Israele può dunque continuare indisturbata i suoi bombardamenti a tappeto, a patto che le persone della Striscia possano almeno mangiare qualcosa e scaldarsi ogni tanto: una risoluzione scritta con il sangue di gente qualunque come me e come voi che leggete, gente che, intrappolata tra due opposti estremismi - quello di Hamas e quello della destra israeliana da troppo tempo al potere – è assiepata senza riparo dentro un fazzoletto di terra su cui da più di due mesi l’aviazione israeliana fa piovere mega bombe Usa da una tonnellata, come hanno pochi giorni fa denunciato New York Times e CNN.
Se noi ancora tolleriamo tutto questo, oltre che per l’innato umanissimo disinteresse per la mala sorte altrui, è perché siamo prigionieri di una storia e di un vocabolario che altri hanno confezionato e che la nostra pigrizia e il nostro conformismo hanno reso indiscutibili. Pensiamo che arabi e palestinesi siano tutti terroristi, pensiamo che siano incapaci e fannulloni, pensiamo quindi che siano invidiosi e pieni di astio verso un popolo avanzato e dinamico – quello israeliano – come il nostro si vanta di essere, un popolo che è diventato in pochi decenni un modello di civiltà e di prosperità economica dopo essere stato oggetto di uno spaventoso genocidio. È giusto – pensiamo – che i figli della diaspora siano tornati dopo quasi duemila anni nella terra che il dio dell’Antico Testamento aveva designato per loro e da cui l’imperatore romano Tito li aveva espulsi nel 70 dopo Cristo: fin dal catechismo ci hanno insegnato che quello ebraico è il popolo eletto da dio, ogni anno ricordiamo il paradosso per cui ciò che dio sceglie il mondo perseguita, per contrastarlo nelle scuole diffondiamo le testimonianze scritte dei pogrom e quelle anche orali della macchina di sterminio nazista, nel nostro ecosistema mentale spiccano i nomi di Primo Levi e di Hannah Arendt, di Elie Wiesel e di Anna Frank, de La vita è bella e di Schindler’s List.
Poi però capita di vincere la pigrizia e di scoprire che esiste un’altra storia della nascita dello Stato di Israele, ufficialmente istituito nel maggio del 1948 dopo che l’Inghilterra aveva preannunciato per quel mese la sua rinuncia al Mandato sulla Palestina e dopo che l’ONU aveva approvato la Risoluzione 181 con cui l’intera ragione veniva spartita tra ebrei e palestinesi. Apprendiamo così da Ilan Pappé, storico israeliano che si è formato nelle università di Haifa e di Oxford e ora insegna nell’ateneo di Exeter in Inghilterra, che il movimento sionista fin dagli anni Venti coltivava il progetto di uno Stato esclusivamente ebraico in un territorio che per secoli era stato abitato da genti arabe, che aver affermato già prima della Risoluzione 181 il principio della parità tra ebrei e palestinesi ha significato di fatto accordare ai primi uno sfacciato privilegio, dato che essi avrebbero avuto il 50% del territorio pur contando numericamente il 6 %, che in realtà le rivolte arabe e la guerra del 1948 scoppiarono contro questa palese ingiustizia e contro la vera e propria campagna di pulizia etnica che le forze paramilitari ebraiche (Haganà, Irgun, banda Stern) già prima della approvazione della Risoluzione 181 (prima cioè del novembre 1947) avevano cominciato a condurre per liberare dagli arabi i territori loro assegnati, spianando persino i villaggi in cui questi vivevano da generazioni.
Nel suo La pulizia etnica della Palestina (Fazi, 2008), Pappé riferisce quello che i “nuovi storici” di Israele hanno trovato negli archivi, resi con gli anni accessibili, dell’IDF (Israel Defence Forces), nel Diary di Ben Gurion così come nelle memorie di altri protagonisti dell’epoca, nei “documenti di condanna verbale da parte di politici sionisti di quel periodo turbati” dalla pratica sistematica e spietata delle esecuzioni sommarie e talvolta di massa (i villaggi di Tantoura e Deir Yassin, per esempio), dei saccheggi, delle deportazioni, della distruzione tramite esplosivi e della cancellazione fisica di interi villaggi sulle cui macerie sarebbero poi sorte nuove città di nome ebraico.
Consigliati da LinkedIn
Corredato di ventotto pagine di note e di una ricca bibliografia, il libro non manca mai di citare la fonte – perlopiù di parte israeliana, ma non mancano le agghiaccianti testimonianze dirette dei palestinesi sopravvissuti e costretti ad abbandonare le loro case, spesso dopo aver visto uccidere i loro cari. Apprendiamo così che i piani sionisti per dearabizzare quella parte di Palestina che la Risoluzione 181 aveva riconosciuto al nascente Stato di Israele (fino al 1967 l’Egitto controllava la Striscia di Gaza, la Transgiordania – poi Giordania – l’attuale Cisgiordania) avevano i nomi espliciti di “Eliminare il lievito”, “Pulire il lievito/Sradicare”, “Purificazione”; leggiamo da un documento originale che questo obiettivo doveva essere raggiunto “distruggendo i villaggi (dandogli fuoco, facendoli saltare in aria e minandone le macerie)” e che “in caso di resistenza” si dovevano “eliminare le forze armate e la popolazione” doveva “essere espulsa fuori dai confini dello Stato” (Piano Dalet, 10 marzo 1948), una sciagura toccata a centinaia di villaggi palestinesi e a “l’85 per cento dei palestinesi che vivevano nell’area che divenne poi lo Stato di Israele”, costretti con la violenza a diventare profughi.
Veniamo anche a sapere che nell’operazione “Ramazza” (!) in pochi giorni quindici villaggi palestinesi “furono cancellati dalla mappa della Palestina all’interno di una zona piena di soldati britannici, emissari dell’ONU e corrispondenti stranieri”, questi ultimi – a quanto pare – restii a “criticare apertamente, appena tre anni dopo l’Olocausto, le azioni della nazione ebraica”. D’altra parte, una ex ufficiale dell’esercito del tempo – riporta Pappé – “ricorda che ufficiali politici speciali andavano di persona a incitare le truppe demonizzando i palestinesi e invocando l’Olocausto come punto di riferimento per le operazioni future”.
Tralasciando dunque la circostanza beffarda per cui il capo del gruppo paramilitare d’élite “Irgun”, che applicava alla lettera le prescrizioni del sopra menzionato piano Dalet e che per questo veniva correttamente definito terrorista, era quel Begin che nel 1978 fu ritenuto meritevole del premio Nobel per la pace, sono molte le costanti che saltano agli occhi se solo si confronta la “catastrofe” – “Nakba”, come i palestinesi ricordano i tragici eventi del 1948 – che Pappé ricostruisce nel suo libro con la catastrofe che oggi colpisce la Striscia di Gaza. Nessuno mi convincerà mai che i bombardamenti a tappeto della Striscia abbiano altro scopo che quello di costringere anche questi palestinesi ad abbandonare la loro terra e le loro case, mentre sono sotto gli occhi di tutti l’impotenza un po’ cinica e un po’ servile dell’ONU, la spudorata ipocrisia degli Stati Uniti, la soggezione tra vigliacca e mercenaria della stampa, l’ignoranza e la morale pantofolaia dell’opinione pubblica, su tutto il disprezzo dei più elementari diritti umani da parte di Israele, associato a un senso di impunità che, se è pienamente coerente con la fede fanatica di chi davvero crede di essere stato eletto da un qualche dio, risulta addirittura osceno per un popolo che analoga catastrofe ha dovuto subire nel suo passato lontano e, ancor più, recente.