Affrontare i micro-conflitti lavorativi: ipotesi e nuovi sguardi
Ripropongo una sintesi di un articolo di Franca Olivetti Manoukian: “Ri-conoscere i conflitti nelle organizzazioni di lavoro” .
Le riflessioni della Manoukian, sono molto dense, richiedono una lettura paziente e attenta, ma ci aiutano a vedere con una nuova luce i problemi e i conflitti quotidiani: sono situazioni che spesso incontriamo nella nostra attività professionale che causano malumori, sofferenze, demotivazioni, bloccando le potenzialità creative e produttive di cui ogni organizzazione non può fare a meno.
Normalmente si tende a pensare che nelle organizzazioni ci sia un eccesso di conflitti, ma in realtà molto spesso i conflitti sono negati, tenuti nascosti. E allora il problema maggiore non è l’eccesso di conflitti, ma l’accesso ai conflitti.
Solo conoscendo i conflitti, dando loro un nome è possibile affrontarli e gestirli. L’articolo della Manoukian è importante perché fornisce alcune chiavi per leggere e comprendere in modo inedito situazioni che ci sembrano bloccate.
Dopotutto una situazione conflittuale potrebbe essere un fantastico oggetto di apprendimento che ci introduce a percorsi esplorativi su ciò che pensano altri, su altri mondi, alte logiche, altre relazioni.
Spesso, invece, di fronte ad un problema c’è affannosa e inesausta ricerca di “soluzioni”, e se non sono disponibili le soluzioni sono sempre reperibili dei colpevoli, con effetti comunque rassicuranti e al tempo stesso sterili.
L’articolo in versione integrale è scaricabile sul sito di Polemos; qui di seguito ne propongo una sintesi. Buona lettura.
1) L’immaginario dell’armonia
LA PRIMA IPOTESI. Recenti letture – scrive F. O. Manoukian – e riflessioni sulle sempre più frequenti richieste che mi arrivano per intervenire in situazioni organizzative fortemente critiche per non dire esplosive, mi portano ad assumere un ipotesi: le difficoltà di affrontare la conoscenza delle micro-conflittualità potrebbe anche essere collegata alla dominanza nei contesti organizzativi di un immaginario sociale di armonia, di omogeneità e convergenza necessaria verso scopi comuni.
ORGANIZZAZIONE E RAZIONALITÀ. Probabilmente da quando la parola “organizzazione” è entrata nel discorrere quotidiano, da quando cioè l’organizzazione, prima di tutto e soprattutto l’organizzazione del lavoro per la produzione industriale (e tutto ciò che essa comporta) è diventata parte centrale della vita nella società occidentale, essa rimanda a “ordine”, “congruenza”, “funzionamento adeguato, perché ben congegnato”.
Il termine dalle oscure radici etimologiche (organon, strumento, forse collegato a ergon, lavoro e per estensione “parte che ha una funzione definita in un organismo”) per chissà quali contiguità e contaminazioni linguistiche, nello sviluppo della società industriale, ha assunto un significato sempre più illuminato dalla razionalità, indispensabile per definire e prescrivere ciò che è necessario per far funzionare quell’”insieme di uomini e mezzi” chiamato prima “fabbrica” e successivamente “azienda moderna”: scomposizioni e ricomposizioni del lavoro in forme sempre più regolari e regolamentate nel tempo e nello spazio per ottenere risultati e insieme mantenimento del sistema tecnico e sociale che li garantisce.
METAFORE. Le scienze classiche dell’organizzazione hanno contribuito non poco a sostenere e promuovere questo immaginario, che si è riproposto in forme diverse anche quando evoluzioni tecnologiche e socioculturali hanno scosso le impostazioni meccanicistiche sottolineando l’importanza dei processi di interazione con il contesto esterno e dei processi di mutuo aggiustamento con l’esterno e all’interno.
Dalla metafora dell’orologio a quella dell’organismo si ha un notevole passaggio culturale, ma l’immaginario che presiede alle rappresentazioni dell’organizzazione è pur sempre quello di un’armonizzazione delle differenziazioni e delle diversità in un quadro ben disciplinato, indispensabile per un adeguato funzionamento dei gruppi e delle organizzazioni.
Anche se le teorizzazioni sui fenomeni organizzativi oggi più accreditate danno per acquisito che il conflitto è ineliminabile dalle situazioni organizzative in cui sono necessariamente presenti variegazioni di provenienze sociali, di orientamenti gestionali, di criteri di valutazione delle questioni e delle persone, l’immaginario tende a considerare le multiformità, le esperienze di autoorganizzazione, le incertezze, le delusioni e le tensioni che accompagnano ogni modificazione, come “disordine”, come elementi fastidiosi ed estranei, impropri ad ogni realtà organizzata.
Nell’accostare le o la questione dei conflitti siamo portati a letture guidate da questa rappresentazione e pertanto tendenti a togliere di mezzo tutto ciò che appare come disfunzione, ma anche scostamento, disconoscimento, fatica e insofferenza, malessere, contraddizione: tendenti ad eliminare ciò che è inscritto nelle situazioni conflittuali, che le costituisce e le accompagna.
Il nostro sguardo tende a vedere i conflitti con l’occhio rivolto all’armonia che ci sembra non solo facilitante ma indispensabile per un adeguato funzionamento delle organizzazioni e dei gruppi.
ASPETTATIVE. Quanto più ci si trova in un contesto micro-sociale, micro-organizzativo, tanto più è elevata l’aspettativa di essere d’accordo per poter produrre bene. Da qui appare pressoché immediato da parte dei singoli il far coincidere (coincidenza tanto postulata quanto non verificata) la “con-cordia”, la consonanza, l’intendersi facilmente, lo star bene insieme con il lavorare bene e il produrre eccellenze.
Il fatto che in una società e/o in una grande azienda ci siano contrapposizioni appare più accettabile, purché all’interno delle parti si possano ricreare aree circoscritte omogenee.
Per un istituto, un servizio, un ufficio, un’équipe l’esistenza di conflittualità che punteggiano la quotidianità lavorativa sembra intollerabile.
RISTRUTTURAZIONI E CAMBIAMENTI. Sono assai diffusi disorientamenti e sentimenti di incertezza accresciuti anche da ristrutturazioni e cambiamenti continui di assetti proprietari.
Se questo accade nelle organizzazioni aziendali cosiddette private, altrettanto e in modo ancor più intenso avviene nelle organizzazioni pubbliche, nelle amministrazioni degli enti locali, nelle aziende sanitarie e negli ospedali.
In queste aree, consistenti cambiamenti strutturali e pressanti spinte verso cambiamenti culturali portano forti scossoni ai processi di lavoro ma anche agli equilibri tradizionali nei rapporti individuo, gruppo, organizzazione, istituzione.
E’ inevitabile, impossibile che tutto questo sia indolore, che possa avvenire in modo lineare, che si ricostituisca rapidamente “omogeneità” culturale, che tutti all’unisono, disciplinati e “caricati”, si avviino verso le nuove mete !
Ma forse il problema principale è l’immaginario: un immaginario che ci guida verso l’eliminazione più che verso la accettazione della pluralità discordante e della microconflittualità .
2) Attese e pretese
LA SECONDA IPOTESI. Una seconda ipotesi che propongo è che nella quotidianità lavorativa i conflitti più penosi e pungenti, quelli che travagliano e tormentano i giorni e le notti di uomini e donne, che consumano gruppi e sottogruppi in “storie infinite”, affondino le loro radici nelle attese che i singoli portano alle organizzazioni di lavoro.
Sono attese solo in parte esplicite e esplicitate e soprattutto riguardano ciò che è considerato dovuto, ciò che la situazione lavorativa deve mettere a disposizione.
SIMBOLIZZAZIONE NUMERICA. In quest’ottica la retribuzione costituisce una simbolizzazione numerica che riconduce a elementi quantitativi semplici, attese molto variegate rispetto a riconoscimenti di posizione sociale e capacità professionale.
Traduzioni analoghe sono costituite da definizioni di inquadramento in diversi livelli e aree organizzative che sono fonti di prestigio e da pianificazioni di carriere e sviluppo di potenziale che prevedono anche da posizioni modeste, opportunità di miglioramento.
Ma anche la diversa ubicazione della stanza o della scrivania, la qualità degli arredi, la dimensione della pianta ornamentale sono tutti elementi collegati e collegabili a ciò che i singoli si aspettano che l’organizzazione provveda a fornire.
ATTESE IMPLICITE. Vi sono però anche attese più profonde non esplicitate o espresse solo indirettamente e parzialmente che non trovano corrispondenza in aspetti strutturali, in forme e oggetti e che si fanno avanti altrimenti, attraverso iniziative che in effetti sono richieste – spesso cariche di elementi rivendicativi, di accuse e di denunce – ad esempio di informazioni da cui si è stati esclusi, di opportunità formative che non sono state offerte perché non sono stati letti i bisogni, di considerazione di un impegno straordinario di cui non si è tenuto conto, di sanzione di un capo o di un collaboratore che ha comportamenti inadeguati, ecc.
Sono attese di riconoscimento di sé che riguardano cioè interrogativi attorno al chi sono e quanto valgo, ricerca di appartenenze e conferme.
RICONOSCIMENTO E VALUTAZIONE. Nelle organizzazioni che hanno produzioni e strutture più prefissate, collegate ad impianti manifatturieri che danno risultati più immediatamente misurabili e a reti di vendita che hanno articolazioni e dotazioni di materiali predeterminati e prevedibili queste attese potrebbero essere – e forse talvolta ancora lo sono – più padroneggiabili attraverso contrattazioni nel momento dell’assunzione o in successive verifiche: è come se si potesse riuscire a considerarle attraverso delle materializzazioni condivise, a cui viene dato un valore analogo da parte dei singoli e da parte dell’organizzazione.
Ristrutturazioni e fusioni, trasferimenti delle unità produttive in altri paesi, acquisizioni e scorpori sconquassano tuttavia anche le situazioni in cui la produzione è più hard.
Ma nelle organizzazioni che producono servizi, penso a tutte le articolazioni dei servizi pubblici e privati che operano nel campo della sanità, dell’assistenza, dell’istruzione o della formazione, le attese di riconoscimento prendono spazi e configurazioni ben più aperte e ben meno contenibili.
ESEMPI. Provo a richiamare due esempi.
Se il capoarea di una rete di vendita si trova a fine anno con un risultato inferiore del 30% a quello che era stato fissato dovrà in qualche modo ricollocare le proprie aspettative di essere il migliore, il più apprezzato dai capi, il più amato dai collaboratori, il più abile con i clienti; cercherà di accusare altri, si dibatterà per difendersi, forse anche riuscirà a individuare alcune ragioni dell’insuccesso; non potrà sottrarsi però ad una convergenza di rappresentazioni sull’esistenza di esiti disconfermanti delle sue attese e avrà in qualche modo un contenimento.
Se uno psicologo di un consultorio, magari anche con un ruolo di coordinatore, riceve più lettere dal Tribunale dei Minorenni in cui si incarica il Servizio di fare indagini sulla situazione familiare di un minore e in vari modi elude la richiesta, quando un dirigente dell’azienda Sanitaria gliene chiede conto sottolineando l’obbligatorietà di risposta, può sempre rappresentarsi che è incompatibile con il suo lavoro di psicologo nei servizi un intervento – come si usa dire – di controllo sociale, oppure che non si può lavorare neppure a livello diagnostico con una persona o una famiglia che non collabora, oppure che l’azienda non gli mette a disposizione la possibilità di svolgere psicoterapie, attività che valorizzerebbe le sue più specifiche e qualificate competenze, e che gli permetterebbe di realizzarsi e crescere professionalmente…. Può pensare che i capi aziendali non sono al corrente, non hanno cognizione né della sua attività né della sua competenza.
CONFINI MOBILI. Le attese di riconoscimento vanno a collocarsi in un ambito ben poco assunto dall’organizzazione aziendale, parallelo a quello delle prescrizioni formali, e tendono a vagare, con forti tensioni nei confronti di una direzione aziendale percepita come sempre più estranea e ottusa, alla ricerca di ritorni e conferme in altri luoghi.
Le organizzazioni più statiche danno più chiare delimitazioni a quanto è pensabile attendersi dalla posizione che si occupa e dall’attività che si svolge.
Evoluzioni e modificazioni complessive e parziali degli assetti organizzativi e lavorativi sembrano aprire i confini, renderli più mobili e variabili: si mobilitano preoccupazioni e inquietudini, timori di privazioni e riduzioni insieme a prefigurazioni e attese di nuovi possibili; si sposta la percezione del discrimine tra possibile e impossibile.
Non si sa quel che succederà, ma si rinnovano le aspettative: si portano delle richieste con atteggiamento vigile, anche paziente, in parte scettico e in parte speranzoso. Si riaprono i giochi e ognuno può rimettere la propria posta.
DALL’ATTESA ALLA PRETESA. Ora i conflitti della quotidianità lavorativa scoppiano quando le “at-tese” di riconoscimento diventano “pre-tese”, quando l’”ad-tendere”, il tendere verso qualche cosa scivola nel “prae-tendere”, porre innanzi a tutto.
Le richieste aperte e indefinite si fissano e si cristallizzano in contenuti e dettati indiscutibili e immodificabili, che si condensano appoggiandosi a necessità “oggettive” (in qualche modo collegate a imperativi circolanti nell’organizzazione, come quelli della riduzione delle spese, o della valutazione) o mettendo in primo piano rivendicazioni “soggettive” (ciò che si ritiene ad ogni costo dovuto e irrinunciabile, come l’essere “obbediti”, in quanto si è dirigenti o l’avere continue e chiare definizioni di ruoli e interazioni, o il vedere soddisfatte le proprie esigenze di orari e ferie, perché si è dipendenti).
PER CONTINUARE LA RIFLESSIONE. Le ipotesi che ho cercato di proporre potrebbero essere ulteriormente aperte e articolate, precisate e approfondite.
A me pare che in questi ultimi tempi in vari casi ogni modificazione dei contenuti di lavoro, venga percepita come attacco, pericolosa minaccia all’identità professionale e personale da cui difendersi ad ogni costo.
Contenziosi, contrasti e contrarietà si moltiplicano, anche attraverso sottrazioni, silenzi e chiusure, perché essere sempre portatori di lamentazioni e accuse appare troppo sgradevole.
Tuttavia potrebbero essere prefigurate delle strade per affrontare i microconflitti lavorativi rivolte più che a cercare di sbrogliare gli intrichi relazionali, a permettere alle persone e ai gruppi di “vedere/sapere” in modo più esplicito e consapevole l’”immaginario” a cui sono attaccati, collocandosi nelle grandi trasformazioni che attraversano il contesto sociale più vasto e che interrogano tante rappresentazioni a cui sono – siamo – affezionati.
Forse per questa via diventa possibile che si allenti la presa e che ci sposti, aprendo altri sguardi e facendosi così autori di altre rappresentazioni, mobilitanti di nuovi modi di porsi rispetto al lavoro, all’organizzazione e alla professione.
Post scriptum
BLOG: Questo articolo è pubblicato anche sul mio blog stefanopollini.com
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Professionista nel settore Tessile/Filati Seta-Cotone
5 anniFacendolo migliori la coesistenza in ufficio.