ATTACCAR BOTTONI
“C’era una fila di bottoncini di raso che non abbottonavano nulla e che non potevano
essere sbottonati”. Questo intrigante cenno all’abito della proustiana Odette de Crecy
introduce ad un libro davvero curioso di Margherita Di Fazio, saggista da sempre
interessata ai rapporti fra testo e paratesto. Il titolo è “Bottoni, cappelli e...
L'accessorio dell'abbigliamento fra moda e letteratura” e la tesi di fondo è che anche
un elemento secondario come l’accessorio, al pari di ogni oggetto del mondo reale,
può entrare nella fiction, ovvero nell'universo "finzionale" della letteratura. In quali
forme? In quale rapporto con la trama del racconto? La domanda si ramifica in un
delta narrativo: quali funzioni svolgono all'interno dei rispettivi testi i bottoncini
sull'abito di Odette, il cappello fiorito di romantici myosotis e gentili piante
acquatiche della contessa lituana Prascovie Labinska descritta da Théophile Gautier
in “Avatar”, il guanto dell'armatura e quello della sfida, gli occhiali del manzoniano
don Abbondio, l'ombrello della super-tata Mary Poppins uscita dalla penna di Pamela
Lyndon Travers, il ventaglio di Lady Windermere creatura di Oscar Wilde, il giglio
di Francia tatuato sulla seducente spalla della perfida Milady di Dumas, ecc.? La
risposta è che essi non vivono solo "mimeticamente" nella rappresentazione letteraria,
come parte dell'abbigliamento dei personaggi, ma spesso concorrono in modo
sostanziale al processo costruttivo in corso, diventando uno dei tasselli fondamentali
nell’animato mosaico della narrazione.
Corredato da molte preziose immagini, “Bottoni, cappelli e...” racconta le varie
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preferenze degli scrittori per gli accessori, a cominciare da quella per i bottoni. Da
Flaubert a Balzac, da Puškin a Pirandello, la predilezione per i dischetti da infilare
nelle asole è palese. Si pensi, solo per citare un esempio italiano, alla novella “Il
bottone della palandrana” di Pirandello, in cui la perdita di un unico bottone incarna il
collasso di un intero sistema di vita (“Ma, ormai, a che gli serviva più? Poteva bene
andar per via con la palandrana sbottonata, e anche svoltata, con le maniche alla
rovescia…”). D’altro canto, se Flaubert un po’ feticisticamente dichiara che “nulla è
più conturbante di una mano inguantata”, Mallarmé si focalizza sul ventaglio
femminile (al quale ha dedicato oltre venti poesie), mentre al giorno d’oggi
l’attenzione degli autori finisce sempre più spesso per rivolgersi ad accessori sui
generis come il tatuaggio ed il piercing, due elementi che “entrano” materialmente
nel corpo, alterandone la fisicità: volendo trasmettere un’idea di identità e di
appartenenza, oltre che connotare un look, essi rivelano un’esigenza individuale di
esibizione tutt’altro che naif, bensì calcolata a fini di simulazione e dissimulazione al
medesimo tempo.
Come insegnava nonno Lëša al giovane Kolima, tatuatore in erba – alias lo scrittore
Nicolai Lilin (russo naturalizzato italiano), autore di noti romanzi quali “Educazione
siberiana” e “Storie sulla pelle” – “Eccoti la prima lezione, piede scalzo: le parole
sono il cane che hai a casa, i disegni dei tatuaggi sono il lupo che incontri nel bosco.
Non siamo noi a dominare i simboli, sono loro a muovere la nostra vita”.
Sonia Sbolzani