Caregiver: dai fatti ai diritti

Caregiver: dai fatti ai diritti


Oltre 10 milioni di persone, soprattutto donne, solo in Italia – per scelta o per obbligo – si prendono cura di un familiare. Un’attività non retribuita, che spesso significa anche rinunce: al lavoro, alla vita sociale, talvolta anche alla cura di sé. E mentre in Parlamento sono in discussione 6 proposte di legge per il riconoscimento della figura del caregiver, la società chiede un’accelerata.

I numeri 

Quanti sono i caregiver in Italia? Sette, dieci milioni, secondo Istat. Ma, come è chiaro, si stima che, in realtà, siano molti di più: senza un riconoscimento ufficiale è difficile dirlo. Esattamente come è difficile trovare un nucleo familiare all’interno del quale non ci sia qualcuno che, per desiderio o per necessità, non si prenda cura di qualcun altro. Ma chi si prende cura di chi si prende cura? Chi tutela la salute mentale dei caregiver? Chi tutela il posto di lavoro? Chi tutela il diritto alla vita sociale? 

Lo spaccato del Barometro 2024 

Limitando il discorso a sclerosi multipla e patologie correlate, l’analisi dei costi dell’assistenza familiare non lascia spazio a interpretazioni. Come riportato nel nostro Barometro 2024, si stima che in Italia  le persone con SM siano 140mila e circa 2mila quelle con NMOSD: i costi sociali complessivi si aggirano sui 6,5 miliardi annui.

Questi costi sociali – che aumentano con l’aumentare della gravità della malattia: si va dai 34.600 euro l’anno in presenza di una disabilità lieve ai 62.400 euro l’anno in caso di disabilità grave – sono in parte diretti a carico dello Stato, in parte diretti a carico delle famiglie, in parte indiretti a carico della collettività. 

L’aspetto eclatante, spiega Tommaso Manacorda , Ricercatore welfare, sanità pubblica e advocacy per il nostro Osservatorio diritti e servizi, è che «con l’aggravarsi della malattia, i costi a carico dello Stato si mantengono costanti, circa 22mila euro l’anno a persona.

Quelli che aumentano in maniera sensibile sono i costi diretti a carico delle famiglie – si va dai 2.350 per una disabilità lieve ai 13.850 in caso di disabilità grave – e quelli indiretti a carico della collettività, in cui rientrano i costi del caregiving, inteso come ore di lavoro perse. Come ripetiamo sempre, se le persone con SM smettono di lavorare provocano una perdita per la società. Lo stesso vale per i caregiver».

E la perdita è notevole: 10.350 euro per una disabilità lieve, 21.300 euro per una disabilità moderata, 26.200 per una disabilità grave. 

 

Tra pubblico (poco) e privato (tanto) 

Sempre secondo il Barometro, il bisogno di assistenza e aiuto nella vita quotidiana riguarda soprattutto le persone con disabilità più grave, che lo hanno ricevuto con ‘molto o abbastanza beneficio’ nel 38,6% dei casi. Ma sono numerose anche le persone che non sono riuscite a riceverlo pur avendone bisogno – il 26,2% tra chi ha disabilità grave.

È importante notare che anche il 23% di chi ha una disabilità moderata e il 10,2% di chi la ha lieve si è espresso in questo modo. Ma da chi proviene questo aiuto? La risposta è tanto palese quanto opprimente: nella maggioranza dei casi (54,9%) le persone ricevono aiuto e assistenza domiciliare senza alcun supporto del pubblico: dai caregiver familiari, dall’Associazione o da personale pagato di tasca propria.

Nel 28% dei casi c’è una combinazione tra risorse private e servizi pubblici e convenzionati (anche con compartecipazione), che solo nel 17,1% dei casi sono indicati come l’unico erogatore. Nel 40% dei casi i caregiver sono conviventi; un altro 40% dei casi è coperto da assistenti familiari. Nel 12% dei casi si tratta di persone non conviventi. Continua Manacorda:

«Il 70% delle persone ci dice che l’aiuto è indispensabile per non rimanere isolato. Tutti ci riportano la grande fatica nel reperire servizi pubblici e l’importanza dell’incidenza economica. Poco meno della metà del nostro campione spiega che riceve meno aiuto di quanto avrebbe bisogno perché non può permetterselo. E se nel 50% dei casi l’assistenza è coordinata con la cura, l’altra metà denuncia lo scollamento tra neurologo e assistenza».

Va in questo senso la promozione e la formazione, da parte nostra, della figura dell’infermiere case manager, trait d’union tra tutte le componenti della presa in carico. Conclude Manacorda:

«Questa figura non solo dovrebbe garantire la personalizzazione delle cure, ma anche calarla nella vita della persona, facilitando anche l’accesso ai servizi non ospedalieri. Dai PUA ai PDTA – passando per i nostri progetti Umanizzazione e Hard to reach, nato per mettere a disposizione di tutte le persone con SM o patologie correlate i servizi di cui hanno bisogno – vogliamo che questa prassi sia scritta in ogni modello, mettendoci poi a disposizione dei territori affinché sia realizzata». 

Sei proposte di legge e un richiamo dell’Onu 

Sono attualmente sei le proposte di legge in materia di riconoscimento e tutela della figura del caregiver familiare in discussione alla Camera dei Deputati.

Tra le misure condivise da tutte le proposte, la necessità di definire questa figura (il richiamo è al comma 255 dell’articolo 1 della Legge 205/2017, la Legge di Bilancio 2018); l’urgenza di individuare misure per la conciliazione tra attività lavorativa e di cura; la valorizzazione delle competenze acquisite in quanto caregiver.

Le proposte di legge, a oggi, sono tutte incardinate e, a luglio, sono iniziate le audizioni presso l’XI Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati. Commenta l’on. Ilaria Malavasi (PD), firmataria di due delle sei proposte di legge: «È un’urgenza del nostro Paese dare piena dignità a chi ha scelto o è stato obbligato a diventare caregiver. Sono i pilastri del welfare di comunità, senza di loro il pubblico non sarebbe in grado di gestire tutto il carico. Riconoscerli significa anche costruire un piano di vita adeguato per le persone che necessitano di un’assistenza quotidiana».

Il 3 ottobre 2022 il Comitato ONU sui diritti delle persone con disabilità ha richiamato l’Italia per la mancanza di tutela giuridica dei caregiver, accertando così la violazione degli obblighi internazionali assunti con la ratifica della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. Vengono citati nella Legge delega 33/2023, nel decreto attuativo sulla non autosufficienza, ma parlarne non basta, servono riconoscimenti ufficiali. «Le Regioni sono decisamente più avanti – continua Malavasi –: oggi sono 11 quelle che hanno leggi sui caregiver. Dobbiamo mettere l’accento sui contributi figurativi; su un accompagnamento per un’uscita anticipata dal lavoro non penalizzante; sul supporto e sul sollievo; sull’empowerment; sulla necessità di potersi curare staccandosi dall’assistenza». 

«Convergere sulla definizione di caregiver è il passo più importante – sottolinea l’on. Simona Loizzo (Lega), firmataria della proposta di legge n. 114 dell’ottobre 2022 –. A oggi si tratta di uomini e donne – soprattutto donne – penalizzati nella loro vita sociale, economica, lavorativa. Inquadrare la figura è l’aspetto preliminare per la successiva individuazione delle linee guida e per un approccio quali-quantitativo». 


Soin, il progetto di Tor Vergata 

«La nostra mission è presidiare il benessere di chi lavora e di chi studia garantendo pari opportunità. Genere, etnia, religione, stato sociale, lingua, Paese d’origine, disabilità non possono essere ostacoli. Ma, con alcuni colleghi, ci siamo resi conto che non ci fosse nulla a tutela di chi si ritrovasse investito dalla necessità di assistere un familiare con disabilità».

A parlare è Carola Gasparri , Vice Presidente del Comitato Unico di Garanzia dell’ Università di Roma Tor Vergata , responsabile dell’Ufficio bilancio e sostenibilità dell’ateneo e artefice del progetto SOIN – SOstegno e INclusione per gli studenti e le studentesse caregiver familiari:

«Arrivò anche a noi la lettera aperta di Antonio Demarcus, studente cagliaritano e caregiver della madre, per il riconoscimento dei caregiver universitari. Di fatto il tema non era mai stato affrontato e, in caso di richiesta, si applicavano le stesse regole della carriera part-time. Questo, però, non rispondeva pienamente alla richiesta, così abbiamo cercato di conciliare le varie esigenze manifestate con ciò che, realisticamente, avremmo potuto offrire».

SOIN – acronimo di sostegno e inclusione, ma anche ‘cura’, dal francese – è nato così ed è entrato nel regolamento d’ateneo a partire dall’anno in corso (novembre 2023-novembre 2024): «Raccogliamo le richieste e, insieme, valutiamo la presenza dei requisiti. In caso positivo, costruiamo un percorso di studio personalizzato. SOIN può prevedere uno o più servizi: counselling psicologico; lezioni a distanza in modalità asincrona; esonero parziale sulle tasse universitarie; rimodulazione delle attività laboratoriali; supporto in fase di placement».

In questo primo anno, sono stati avviati due percorsi: uno per una studentessa di ingegneria, caregiver del proprio padre; uno per uno studente di giurisprudenza, caregiver del proprio figlio. 


Sensi di colpa e richieste d’aiuto 

Già, i figli. «Le diagnosi di sclerosi multipla in età pediatrica sono una minoranza ma, da un punto di vista psicologico, sono tra le più complesse da affrontare per l’estremo coinvolgimento dei genitori, soprattutto delle mamme. I giovani padri sono molto più partecipi di quelli di un tempo, ma la loro figura va ulteriormente valorizzata, anche per alleviare il carico mentale e fisico della mamma». Lo dice Alessandra Tongiorgi, da sempre vicina alla nostra associazione. È una psicologa specializzata in psicologia clinica ospedaliera, con particolare attenzione alla malattia cronica.

«Il pensiero del presente, quello del futuro, la scuola. Il senso di colpa. Le responsabilità verso gli altri figli. La percezione, che se non sviscerata cresce, del mondo come ostile, la scuola come non accogliente, gli infermieri come non attenti. Sentirsi soli è doloroso, ecco perché è importante appoggiarsi alle associazioni. Alle famiglie dico: associatevi, condividete, fatevi forza gli uni gli altri».

Tongiorgi su un altro aspetto mette l’accento: la coppia, spesso l’aspetto più sofferente. La coppia, su cui si ripercuote la preoccupazione per il figlio con una malattia cronica neurodegenerativa, ma anche la coppia che deve ricostruirsi quando uno diventa il caregiver dell’altro: «Ci sono partner che rimuovono, negano, si arrabbiano perché il partner non fa quello che si vorrebbe. Ma, quando si trasforma in assistente, il partner smette di essere tale». Tra i principali e più invalidanti – nonché subdoli – sintomi della SM, come noto, c’è la fatica, «che ha un impatto anche sulla sessualità, snaturando l’essenza della coppia. E così subentra la gelosia, la paura di non essere più attraente. Sono tematiche che vanno affrontate, a tutte le età, per evitare di entrare in un loop pericoloso». 

In caso di neuromielite ottica, poi, c’è un altro sintomo con cui fare i conti: sono i problemi visivi, che possono portare anche alla cecità. Con la NMSOD la perdita della vista è repentina e definitiva. È facile, dunque, immaginare la portata di un impatto simile su una famiglia, soprattutto se a essere colpita è la mamma che, nella nostra società, come spiega Michela Bruzzone, Direttore Area Servizi e Progetti Socio Sanitari, Formazione ECM e Attività Complesse per la nostra associazione e socia fondatrice di AINMO, Associazione italiana Neuromielite ottica:

«Prima deve farsi carico del personale sconcerto e poi anche della riorganizzazione della vita di tutti. Ci sono la situazione lavorativa, le relazioni amicali, le passioni e gli hobby: il teatro, i concerti, il burraco. Come si rimodulano i ruoli? Tutto è confuso: la diagnosi specifica di NMSOD è recente. Prospettive, cure, approcci sono in divenire».

Da dove cominciare, allora? «Dal chiedere, azione spesso ostacolata dai sensi di colpa – conclude Tongiorgi –. E invece chiedere è importante per evitare rabbia, rancori, frustrazione. Paradossalmente, chi chiede un supporto psicologico sta molto meglio rispetto a chi decide di farne a meno».


Una boccata d’ossigeno 

Talvolta, chiedere aiuto significa anche chiedere di passare una vacanza che sia tale non solo per la persona con disabilità ma anche per il caregiver. Ecco perché da anni mettiamo a disposizione alcune strutture destinate al ‘sollievo’.

Casa Letizia si trova ad Auronzo di Cadore, sulle sponde del lago di Santa Caterina, nelle Alpi bellunesi. Otto appartamenti recentemente ristrutturati adatti a ospitare anche persone con una disabilità motoria, vicini al centro, all’inizio di un percorso pedonale. 

Tutti gli appartamenti sono completamente accessibili e hanno una cucina attrezzata. spiega Rachele Paolucci, della nostra Area Turismo Accessibile & MICE:

«Una persona di AISM del luogo si occupa dell’accoglienza e di gestire eventuali problemi o difficoltà. Casa Letizia è gettonata soprattutto d’estate, quando il caldo acutizza i sintomi della SM».

L’ufficio prenotazioni è gestito dallo staff dell’hotel I Girasoli di Lucignano (Arezzo):

«È una casa vacanze, aperta nel 2000. Allora eravamo pionieri, adesso fortunatamente sono numerose le strutture che si aprono al turismo accessibile che, oltre che di un valore morale, è portatore anche di un valore economico».

E se Casa Letizia è self accomodation, ai Girasoli, attorno alla persona con SM, gravitano numerosi servizi: c’è uno staff per l’accoglienza, un concierge, una ristorazione attenta ai bisogni di tutti (anche di chi ha problemi di deglutizione), un servizio OSS su richiesta, sollevatori, deambulatori.

«Nei nostri servizi cerchiamo sempre di andare incontro sia ai bisogni delle persone con SM sia a quelli del caregiver. Le nostre strutture non sono per persone con disabilità: il nostro obiettivo è creare contesti di vacanza piacevoli per tutti. Solo così realizzeremo la vera inclusione». 

L'articolo, scritto da Ambra Notari , è tratto da smitalia, la rivista dedicata ai nostri soci.


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