CHI NON E' UN TRADER?
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CHI NON E' UN TRADER?

“Sembra facile 

invece non lo è, quasi mai”  

cantava nel 2010 Cremonini riferendosi già, senza dubbio, alla interpretazione delle definizioni spesso non proprio eloquenti provenienti dal legislatore europeo.  

In questo caso, ci riferiamo specificamente a quella di operatore commerciale (o nel testo inglese trader) stabilita all’interno del Digital Services Act, noto a tutti ormai come DSA.  

Negli ultimi giorni, è stato richiesto ai soggetti che a vario titolo utilizzano le piattaforme online di comunicare se gli stessi agissero come trader o meno. La valutazione è stata fatta in autonomia, limitandosi spesso le piattaforme online a inoltrare la definizione del Regolamento, che individua i trader come: 

“qualsiasi persona fisica o giuridica, pubblica o privata, che agisce, anche tramite persone che operano a suo nome o per suo conto, per fini relativi alla propria attività commerciale, imprenditoriale, artigianale o professionale”. 

Beh la risposta sembra facile davvero. La definizione, infatti, è generica al punto da apparire omnicomprensiva. Anzi, quasi sarebbe più difficile rispondere alla domanda chi non è un trader, non credete?  

E invece Cremonini ha sempre ragione. Come spesso accade con definizioni così generiche, le aree grigie lasciate ci sono eccome e alcune rendono un intervento chiarificatore del tutto necessario. 

I soggetti coinvolti sono davvero numerosi e variegati. E se per alcuni, come per la categoria degli influencer, ci si può orientare con una maggiore dimestichezza grazie alle linee guida emesse ai tempi della direttiva sulle pratiche commerciali scorrette (UPCD), lo stesso non può dirsi per tante altre lasciate a brancolare un po’ nel buio.  

Pensiamo agli sviluppatori di app. Tra di questi si era diffuso un certo grado di consenso nelle scorse settimane sul fatto che un developer che vende le proprie app dovrebbe rientrare nella categoria dei trader, mentre coloro che offrono le app gratuitamente non dovrebbero considerarsi tali. Ciò che conta, in sostanza, parrebbe essere esclusivamente lo scopo di lucro e la monetizzazione del proprio prodotto sul cliente finale, in qualsiasi modo questa avvenga.  

Eppure questa soluzione di lettura potrebbe non rispecchiare tutte le ipotesi. Nulla impedisce, infatti, che alcune applicazioni - seppure proposte negli store a pochi euro – siano state sviluppate per hobby senza avere l'intenzione degli sviluppatori di guadagnarci in modo significativo. E se gli sviluppatori cominciassero a promuovere l’app e/o avessero altre cinque app sullo stesso store? Allora quasi sicuramente si potrebbe ritenere che siano trader.  

Nel caso C-105/17 Kamenova v. Okrazhna prokuratura — Varna, la Corte di Giustizia  già forniva importanti delucidazioni in tal senso, chiarendo (punto 44) come il semplice fatto che la vendita persegua scopi di lucro o che una persona pubblichi, contemporaneamente, su una piattaforma online un certo numero di annunci per la vendita di beni nuovi e d’occasione non possa ritenersi sufficiente a qualificare tale persona come «trader» ai sensi della UPCD.  

Insomma, non esistendo un’unica formula dissipatrice di dubbi, occorre effettuare una valutazione caso per caso. Trovate nella Comunicazione della Commissione (punto 2.2) una lista di indicatori utili per un assessment, che comunque non devono considerarsi né esaustivi né tassativi.   

Altra domanda cui sarebbe lecito porsi: ma alla fine della fiera, cosa comporta essere trader per il DSA? Non mi conviene dire no e basta? Quali rischi? 

Anzitutto, conviene chiarire subito che l’obbligo principale è impartito alla piattaforma online, e non al trader. L’art 30 del DSA, infatti, impone su di queste un obbligo di tracciabilità, tale per cui queste devono ottenere e comunicare una serie di informazioni, come l’indirizzo, il nome, un numero di telefono del trader. Tutte info, queste, la cui disclosure potrebbe arrecare un certo fastidio a quegli operatori commerciali considerati “piccoli”, costretti a dover indicare il proprio di nome ed indirizzo di casa. 

Chiaro poi che, una volta qualificato come operatore commerciale, l’acquirente potrà azionare alla conclusione del contratto tutte le tutele a questo garantite dalle diverse leggi a protezione del consumatore. Dall’altra parte, sul fronte del “non mi conviene dire solo no?”, come potrete immaginare la risposta è sicuramente negativa, e su due fronti.  

Non bisogna dimenticare che le piattaforme, ad esempio Apple, sono tenute a verificare costantemente se le informazioni fornite siano corrette o meno, consultando, tra l'altro, i database pubblici (pensiamo il registro delle imprese in Italia, o gli equivalenti UK e tedeschi, tra gli altri). Diciamo che avete una società registrata (uno degli indicatori principali di un trader), se scoperta, la condotta descritta comporterebbe una violazione contrattuale nei confronti della piattaforma online a cui sono state inoltrate le info non veritiere. Non è una buona idea violare un contratto con qualcuno (tanto meno con colossi come Apple, Booking, ecc.) scommettendo che non lo scopriranno, soprattutto quando hanno il dovere legale di controllare. Il meno che ci si può aspettare, in uno scenario del genere, è la rimozione del proprio prodotto dal marketplace.  

Dall’altra parte, una condotta simile ammonterebbe senza dubbio ad una presentazione di informazioni false e quindi ad una azione ingannevole volendo citare l’articolo 6 dell’UPCD, azionando quindi anche tutte le tutele citate sopra da parte del consumatore ingannato.  

Insomma, la valutazione va fatta e va fatta con cautela, ed in attesa di desiderabili linee guida in merito, andrà condotta una analisi case-by-case. Noi della pecora siamo qui per aiutare su questo, hit us up.  

 

 

 

 

 

 

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