Climate change e assicuratori: a lungo andare effetti sempre più dirompenti nei rami vita e salute
Nel 2022 le ondate di calore hanno contribuito, nel mondo, a ben 60mila decessi, un numero addirittura superiore a quello (57mila ) delle vittime causate dal disastroso terremoto che nel 2023 ha colpito la Turchia e la Siria. Sono morti per così dire “silenti”, che i media non associano direttamente al climate change come avviene per le sempre più frequenti catastrofi naturali. Sono riconducibili, ad esempio, all’aumento della diffusione delle patologie respiratorie a causa dell’inquinamento atmosferico, alla diffusione di malattie infettive (ad esempio quelle tropicali) in nuove aree geografiche, alla correlazione tra aumento di temperature medie e numero di infortuni sul lavoro. Ma, non di meno, il loro impatto cresce anno dopo anno.
Se finora il cambiamento climatico è stato al centro delle attenzioni soprattutto delle compagnie danni per gli effetti distruttivi che le catastrofi possono avere sui beni di famiglie ed imprese, ora inizia ad essere indagato con sempre maggiore attenzione, e preoccupazione, dagli assicuratori vita e salute. E dai loro consulenti.
“I rischi di sostenibilità e, in particolare, i rischi derivanti dal cambiamento climatico - sottolineano Mattia Terenzi e Giammaria Famiglietti, rispettivamente Senior Manager e Principal di Oliver Wyman Actuarial - stanno cambiando il quadro dei rischi assicurativi tradizionali. L’intensificarsi degli eventi meteorologici estremi, sia in termini di frequenza che di dimensioni, a cui stiamo assistendo in questi giorni sono sicuramente l’effetto più evidente del cambiamento climatico, ma certamente non l’unico. L’aumento delle temperature medie globali, gli stessi eventi climatici estremi e i conseguenti impatti sulla salute umana stanno emergendo, seppur in maniera più modesta nel breve termine rispetto ai danni ai beni”.
Oggetto di analisi non sono soltanto gli effetti diretti del climate change. “I fattori ambientali e sociali portano una serie di impatti indiretti che potrebbero manifestarsi in ultima istanza sulla salute umana: insicurezza alimentare, stress idrici, interruzioni dell’energia elettrica (specie durante picchi di calore) ed eccessiva pressione sul sistema sanitario nazionale. Ad esempio, è stato dimostrato che la perdita di biodiversità, compromettendo la capacità di protezione di un determinato territorio ed ecosistema dai disastri naturali, contribuisce all’insicurezza alimentare ed energetica del territorio stesso”.
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Ma quale impatto hanno questi fenomeni sul business delle polizze? In primo luogo – osservano i due consulenti – “sta evolvendo l’impianto di risk management: le compagnie integrano ora i loro modelli di rischio con le variabili climatiche che possono essere dedotte dai diversi scenari climatici prospettici disponibili”. Gli effetti non sono scontati. “È vero che estati più estreme possono innalzare la mortalità (ondate di calore), ma innanzitutto non è un effetto così significativo (l’effetto vale per le fasce di età più elevate che però sono generalmente escluse dai contratti assicurativi sulla salute) e inoltre tale aumento di mortalità, per i gruppi esposti a livello internazionale, viene compensato da una riduzione derivante dagli inverni più miti, in particolare nell’Europa continentale. Inoltre, c’è tutto il tema degli impatti indiretti di cui parlavamo prima, estremamente difficili da modellizzare”.
Comunque un paio di conclusioni operative possono intanto già essere azzardate. La prima prende spunto dall’impact underwriting, espressione coniata nel 2021 da Eiopa (authority europea delle assicurazioni) per sottolineare l’importanza della prevenzione nell’affrontare, e mitigare, le conseguenze dei cambiamenti climatici nelle coperture danni. Qualcosa di simile può essere immaginato anche nelle garanzie vita e salute? “Pensiamo di si - sottolineano Terenzi e Famiglietti - ad esempio mettendo a disposizione del cliente non solo una copertura dai rischi sulla salute, ma un vero e proprio ecosistema sanitario privato che sia in grado di favorire la prevenzione, lavorando su sistemi di identificazione precoce e sulla promozione di stili di vita migliori, di conseguenza riducendo a monte il profilo di rischio del portafoglio assicurativo”. Nell’immediato, comunque, la principale sfida rimane quella dei dati. “Basi dati il più possibile ampie, in grado di raccogliere informazioni non solo sui propri assicurati ma anche sull’ambiente circostante, permetterebbe di migliorare estremamente la conoscenza del terreno in cui ci muove. Le compagnie potrebbero così sviluppare modelli di pricing e di rischio sempre più precisi e con potere predittivo. E, dall’altro lato, comprendere più in profondità le interrelazioni di rischi complessi e dagli impatti indiretti”.
In questa sollecitazione a sviluppare efficaci strumenti predittivi pesa anche la specificità del business delle polizze vita. Nel settore danni la durata dei contratti è annuale e assicuratori non previdenti possono cullarsi nell’illusione che effetti non compresi del climate change, anche i più dirompenti, potranno essere incorporati ogni anno nel pricing dei prodotti. È un approccio sbagliato perchè si rischia di ritrovarsi in quella che viene chiamata la “Tragedy of the Horizon”, cioè di svegliarsi un bel giorno in uno scenario che li ha messi fuori gioco. Nel settore vita non c’è neppure questa comoda, ma pericolosa, scorciatoia. Gli impegni presi dagli assicuratori con gli assicurati sono a lunga scadenza e qualsiasi modifica significativa delle variabili attuariali prese in considerazione per costruire quelle polizze rischierebbe di essere pagata a caro prezzo dalle compagnie. E quest’ultime, pertanto, non vogliono farsi trovare impreparate.
Managing Partner Studio THMR
1 meseBravissimo, al solito, caro Riccardo Sabbatini