Come o cosa? Sulla fotografia analogica
Originariamente pubblicato su Skialper n.136, agosto 2021.
Il paradosso più curioso -con risvolti spesso nocivi- che riguarda la fotografia di oggi è il fatto che i numeri degli scatti realizzati ogni giorno nel mondo e quelli degli apparecchi venduti abbiano trend inversamente proporzionali. Scattiamo tanto, tantissimo (quante foto scattate in una gita?) ma quasi mai con un apparecchio dedito a tale scopo, soprattutto se si parla di amatori che vanno in montagna. E non gliene va fatta una colpa: uno smartphone è quanto di più adatto ci possa essere per un utilizzo generico in un contesto dinamico. Il problema è che questa forma di parossismo porta poi a dimenticarci dei momenti stessi in cui abbiamo cercato di “fermare l’attimo” attraverso un sensore digitale, semplicemente perché sono troppi da poter essere ricordati. Come quelle feste in cui si stringono decine di mani ma poi finisce che ci ricordiamo solo il nome, a volte neanche quello, di quella persona con cui ci è sembrato di aver avuto un qualche gioco di sguardi, chissà.
Chi lavora nel marketing lo sa bene (o dovrebbe saperlo): troppa scelta crea confusione, per poi sfociare in respingimento. Apple ha un catalogo ridottissimo. Lo stesso dovrebbe valere per i nostri ricordi, sotto forma di contenuti: post, testi più o meno brevi, foto e video. Io stesso ne produco così tanti che poi me li dimentico, fino a quando non vado a riguardarmeli, solitamente per fare pulizia nella memoria del dispositivo. È per questo che nel mio tempo libero, quando sono una normale persona che va in montagna e non un fotografo professionista che deve portare a casa qualcosa, scatto quasi sempre con una macchina analogica. Perché poi le foto che rimangono di una settimana in giro magari sono 20 e non 200, ma in fondo quelle bastano. E poi ci sono svariati altri motivi, che fanno gola a molti. Cioè, non proprio moltissimi, ma comunque qualcuno si: i numeri dicono che da qualche anno il mercato delle pellicole di livello amatoriale sono in rialzo, infatti.
Quello del ridotto numero di ricordi da gestire è probabilmente l’unico aspetto pratico per cui l’analogico vince sul digitale. Tutto il resto è praticamente un esercizio di stile. La grana e la gamma dinamica di una pellicola per me saranno sempre superiore, ma per la maggior parte del tempo un telefono o una mirrorless sono nettamente più pratici. Sono quelle sfumature che bisogna vivere per capirle, esattamente come i riflessi di certi vini o il suono di un impianto hi-fi. A prenderla più larga, comunque, l’alpinismo stesso è un esercizio di stile: se non fossimo interessati al “come” ma solo al “cosa”, ci limiteremmo a fare su e giù dalle vie normali, anziché ostinarci su per canali o pareti rocciose.
Il mondo del 2021 è quello in cui la disponibilità delle cose ha ampiamente sorpassato la loro qualità, e in fondo ci va bene così. Ne parla Massimo Mantellini nel suo saggio Bassa Risoluzione (Einaudi, 2018) in cui spiega il concetto tramite alcuni semplici esempi: il catalogo infinito di Spotify, i voli nelle poltrone lillipuziane di Ryan Air, l’informazione online. Possiamo avere tutto e averlo subito, con il minimo impegno. Di contro, a perderci sono la qualità e il legame emotivo che si instaura tra il contenuto e noi.
Fotografare a rullino è un modo per preservare questo legame con la fotografia e di conseguenza con la nostra memoria: non basta fare scivolare il pollice su uno schermo, ma siamo obbligati a tirare fuori l’oggetto macchina, pensare, inquadrare, premere il tasto dell’otturatore, e poi sperare che tutto andrà a buon fine. Ci sono, specialmente all’inizio, ottime possibilità che vengano fuori delle porcate; e in questo l’analogia con lo scialpinismo è fortissima, perché se ci interessasse semplicemente inanellare curve verso valle, avrebbe più senso andare a sciare solo nei giorni buoni, possibilmente con impianti. Ma sappiamo tutti che si, le curve sono l’ambizione più elevata, ma carichiamo gli sci nel bagagliaio spesso prima dell’alba per tutto quello che ci ruota intorno. Il come, e non il cosa.
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Poi c’è un altro motivo, non ricercato, per cui scatto in analogico. Chi mi conosce sa che sono un procrastinatore seriale, e a farne le spese sono spesso e volentieri i rullini da sviluppare (in questo momento ne ho tre, cioè novantasei scatti, che aspettano sulla scrivania di essere portati alla luce). Succede spesso che ci vogliano mesi, prima di vedere i negativi e i loro provini. Ed è sempre un momento dolcissimo, quello: l’attimo in cui rivivo situazioni che mi ero pressoché dimenticato di aver vissuto, quello in cui la fotografi si rivela nella sua essenza più profonda. Che non è la riproduzione di un istante, ma l’evocazione di un’emozione. E per fare ciò, a volte, succede che la cosa più adatta sia davvero un’immagine sottoesposta, sgranata e leggermente fuori fuoco.
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3 anniLetto qualche giorno fa, un articolo molto interessante!
Roland Berger | Eurazeo | ESCP
3 anniCiao Federico, della pellicola io tenderei anche a non sottovalutare la questione legata all’archivio, storie più o meno recenti (Vivian Maier) ci hanno insegnato che una scatola di negativi in cantina trovata tra 50 anni sarà sempre stampabile e utilizzabile, i nostri preziosi e ultra moderni hard disk se abbandonati e trovati dalle future generazioni saranno inutilizzabili!