Commento settimanale ai mercati

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Niente di nuovo sul fronte occidentale. E’ un romanza autobiografico pubblicato nel 1929 e poi messo al bando dai nazisti nel 1933 che narra le vicende di un soldato tedesco durante la prima guerra mondiale, quella delle trincee per intenderci. Ma che è ottimo per descrivere le notizia che giungono dall’Ucraina, in questo caso fronte orientale, e anche dai mercati finanziari. Mentre sul campo bellico si segnala un cambiamento di strategia dei russi, un po perché non cè stata una vittoria lampo, un po per la strenua resistenza ucraina ed un po per la mancanza di una adeguata organizzazione logistica di supporto, che è poi quella che fa vincere le guerre, sui mercati finanziari nelle ultime settimane si registra una sorta di immobilità

Passata la paura iniziale dell’invasione russa dell’Ucraina, gli investitori hanno visto che il mondo, perlomeno quello finanziario, è ancora intatto. Certo la minaccia nucleare rimane sullo sfonda ma ritenuta improbabile, cosi come l’aumento indiscriminato di molte materie prime che vanno gia ad aggiungere peso all’inflazione. Ma l’economia russa conta molto poco a livello mondiale e per la parte maggiormente rilevante, quella dell’energia, conviene a tutti mantenerla intatta, i russi perché ricevono bei quattrini per la vendita ed il mondo occidentale che ne ha bisogno. Si sta pensando di diminuire la dipendenza dal Gas russo, praticamente raddoppiata negli ultimi 10 anni nonostante l’invasione della Crimea del 2014 ma tutto questo richiederà del tempo e sacrifici che i politici sono poco inclini a ribaltare sui cittadini

Nella speranza che il conflitto si chiuda al più presto, cosa tuttaltro che scontata e si facciano progressi nelle trattative di pace in cui si inseriscono soggetti come Cina prima e Turchia adesso pronte a riscuotere il loro credito più avanti, nel frattempo il mondo va avanti. Il fortissimo aumento del prezzo del petrolio conseguenza della guerra ha fatto crollare le speranza delle banche centrali sulla transitorietà dell’inflazione inchiodandole alle loro responsabilità dopo un decennio di tassi zero. Le problematiche provenienti dal lato dell’offerta e non come tipicamente dalla domanda non aiutano sicuramente l’operato o le decisioni, anche se va sottolineato come i mercati abbiano festeggiato sia il rialzo dei tassi che le ultime dichiarazioni da falco di Powell proprio in virtù di una maggiore chiarezza. Della serie adesso sappiamo di cosa dobbiamo morire…

Il problema viene però dalla statistica: ogni volta che il prezzo del petrolio è salito sopra i 100 dollari ( e questa volta siamo arrivati a 130 dollari non lontano dai massimi assoluti del 2008 a 146 dollari ed il doppio rispetto alle quotazioni di inizio dicembre 2021 a 63 dollari) si è sempre registrata una recessione nei trimestri successevi. Ed in questo contesto non aiuta certo l’inversione della curva dei rendimenti tra il T-Bond a 5 anni e quello a 30 anni che normalmente anticipa una regressione economica. Detta in altri termini e considerando quanto la crescita economica sia basata più sulla parte finanziaria che quella produttiva (vedasi i programmi di buy back azionari uno per tutti) ulteriormente colpita dal forte rialzo delle materie prime, una recessione sembra onestamente inevitabile anche per riportare alla normalità situazioni fuori controllo.

Rimangono i dubbi sulla reale capacità di reazione delle banche centrali che negli ultimi anni hanno sempre vissuto e attuato politiche in un clima di emergenza che alla fine hanno avuto come conseguenza l’aumentare delle differenze sociali tra chi ha guadagnato e prosperato con i mercati azionari (pochi e sempre più ricchi) ed una larga fascia della popolazione che invece ha subito salari sempre più bassi a causa proprio della finanziarizzazione dell’economia. Una recessione non rappresenterebbe la fine del mondo anzi, a patto che l’atterraggio sia morbido. E qui emergono gli interrogativi sia per quanto riguarda le armi ormai spuntate in mano ai banchieri centrali sia in termini di movimenti sui tassi che di credibilità. Ma anche per la qualità della leadership, come sta dimostrando nella Bce le difficoltà della Lagarde, una figura politica messa a capo di una struttura economica/finanziaria, autrice di continue contraddizioni che disorientano i mercati, in questo suo tentativo di dare un calcio al cerchio (gli interessi tedeschi) ed una alla botte (la Francia e gli altri paese dell’Euro).

Accantonate per il momento le problematiche belliche i mercati hanno ripreso a salire, in quello che però sembra un rimbalzo all’interno di una fase ribassista e su cui la chiusura del trimestre fornirà maggiori dettagli. La settimana entrante si annuncia particolarmente interessante per capire se la Fed è veramente disposta a mettere in discussione la crescita economica pur di affrontare l’inflazione che oltre a non essere transitoria è pure fuori controllo. Sono in calendario infatti venerdi sia il dato sull’occupazione non agricola dove la presenza di un surriscaldamento del mercato del lavoro (l’altro mandato della Fed oltre al controllo dei prezzi) andrebbe nella direzione della necessità di aumento dei tassi, sia quello dei consumi personali PCE, previsto al 5,5% annuo rispetto al target di inflazione della Fed al 2%. Sempre venerdi verrà pubblicato il dato di inflazione IPC dell’area Euro atteso su livelli record del 6,5%, anche in questo caso ben sopra il target fissato al 2% alimentando le aspettative di un paio di rialzi dei tassi nel corso dell’anno, negato fino a questo momento dal direttivo di Francoforte

La certezza rimane che il 2021 è stato un anno talmente bello e positivo per i mercati finanziari che adesso stiamo scontando tutto quest’anno. Anche perché esiste sempre una ciclicità, sia per mercati che per la storia

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Filippo Ramigni

Analista tecnico e consulente finanziario indipendente

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