COSA STA CERCANDO DI DIRTI TUO FIGLIO O TUA FIGLIA CON IL SUO COMPORTAMENTO
UN ESEMPIO CONCRETO TRA I TANTI: HIKIKOMORI
Ieri pomeriggio, durante una sessione con una mamma del percorso #GENITORICONLEALI, ho analizzato insieme a lei cosa stia cercando di comunicarle suo figlio di 17 anni chiudendosi in camera e non uscendo.
La mamma ha scelto di affidarsi al percorso GENITORI CON LE ALI perché fatica a comunicare con suo figlio il quale la esclude sistematicamente dalla sua vita, ma soprattutto perché è preoccupata dal fatto che nelle ultime settimane lui ha ricominciato a barricarsi in camera come aveva fatto alcuni anni fa, situazione dalla quale all’epoca la famiglia era riemersa grazie un lungo percorso di terapia.
Questa volta la mamma ha deciso di non aspettare e di affrontare sul nascere la situazione prima che degenerasse andando a lavorare su di sé e sulle sue modalità comunicative, consapevole che dovesse mettersi in gioco lei per prima se voleva sperare in un cambiamento di suo figlio.
HIKIKOMORI
I cosiddetti hikikomori (letteralmente “staccarsi”, “mettersi in disparte”) – fenomeno esploso in Italia negli ultimi due anni a seguito delle restrizioni e dell’emergenza, tanto che ho seguito parecchi casi nell'ultimo anno con ottimi risultati – sono ragazze e ragazzi, soprattutto adolescenti, che si rinchiudono dentro la propria camera per giorni o addirittura settimane e mesi, in alcuni casi non uscendo nemmeno per mangiare o andare in bagno (sic!). Il termine è stato coniato in Giappone dove lo si è osservato e studiato per la prima volta con sistematicità.
IL MONDO PERICOLOSO
Le motivazioni che portano gli adolescenti a questa segregazione volontaria sono diverse e vanno esaminate caso per caso, ma partono da una percezione comune, vale a dire che il mondo esterno, spesso a partire dalla famiglia stessa, sia un luogo per certi versi pericoloso, dal quale fuggire e proteggersi.
La propria stanza diventa allora uno spazio sicuro, sul quale si può esercitare un controllo tenendo lontano tutti.
IL CASO ESAMINATO
Ma veniamo al caso di oggi. Ho scelto di raccontarlo rispetto a tanti altri che ho seguito in questi mesi, perché estremamente emblematico delle dinamiche che portano a questo tipo di situazione. E la mamma è stata super, davvero supercompetente in ciò che ha fatto.
A seguito di un’incomprensione familiare – una proposta di aiuto che è stata equivocata – e di una delusione scolastica, lo scorso martedì sera, dopo cena, il figlio si è chiuso in camera rimanendoci fino alla sera del venerdì, quando è uscito per preparare il materiale necessario per partecipare a un raduno che aveva in programma nel fine settimana e cenare con il padre mentre la mamma era a una cena con colleghe.
L’uscita non è stata né casuale, né dovuta esclusivamente all’attività a cui doveva prendere parte, bensì a ciò che la mamma ha fatto durante questi tre giorni, ovvero mettendo in atto alcune strategie del percorso che hanno ottenuto tre primi importantissimi risultati:
Farlo uscire dopo solo 3 giorni (a differenza del passato in cui rimaneva più a lungo).
Cominciare a modificare radicalmente alcune modalità comunicative e alcuni messaggi che bloccano lei e il figlio dentro a una gabbia educativa e di cui la camera chiusa è l’espressione tangibile.
Far emergere alcuni messaggi nascosti che attraverso questo comportamento il figlio cerca di comunicare ai genitori.
Per cui oggi, abbiamo esaminato quanto emerso durante questa settimana e le strategie suggerite per questo caso specifico.
STRATEGIE CHE NON FUNZIONAVANO
Per cercare di far uscire il figlio, la mamma – comprensibilmente disperata – in passato usava principalmente queste tre strategie:
Lo implorava, passando parecchie ore davanti alla porta, di uscire, con il solo risultato di che suo figlio si ostinava ancor di più a stare chiuso in camera.
Per invitarlo ad uscire dalla camera gli suggeriva e gli consigliava cosa dovesse fare per affrontare i problemi che lei immaginava lo facessero rintanare in camera. Oppure gli chiedeva cosa volesse lei gli preparasse da mangiare.
Quando la situazione andava avanti per lunghi periodi e non si veniva a capo, arriva a ricattarlo, dicendogli che se non fosse uscito almeno per andare a scuola, non avrebbe più potuto svolgere l’attività sportiva di cui è appassionatissimo.
STRATEGIE IMPIEGATE CON SUCCESSO
Esaminata la situazione durante le precedenti sessioni del corso e durante questi 3 giorni in cui io e la mamma siamo rimasti in contatto, quello che ho proposto alla mamma è stato:
Di non stare ore davanti alla porta, di non consigliarlo o dargli suggerimenti e di non ricattarlo.
Quando torna a casa dal lavoro, passare dalla sua camera, salutarlo, raccontargli qualcosa della propria giornata (un aneddoto del lavoro o altro) e poi chiedergli come era stata la sua giornata o come si sentisse.
Se le avesse risposto o raccontato qualcosa, legittimare i suoi vissuti e qualora fosse emersa la sua emozione dicendo per esempio che aveva ragione a essere arrabbiato, senza consolarlo.
Se avesse accennato al fatto che voleva rimanere chiuso in camera, dirgli semplicemente che è grande e che stava a lui decidere cosa fare.
PRIMO RISULTATO: USCITO DALLA CAMERA
Venerdì sera il figlio è uscito dalla camera e sabato mattina, prima di partire per il raduno a cui era iscritto – a cui in passato avrebbe rinunciato –, è passato in camera dalla mamma per salutarla e chiederle scusa.
Lunedì e martedì è andato regolarmente a scuola, mentre in passato si sarebbe richiuso in camera e non sarebbe tornato a scuola.
SECONDO RISULTATO: USCIRE DALLE GABBIE COMUNICATIVE
Durante questi 3 giorni di segregazione forzata e più in generale in queste prime settimane di percorso, quello che la mamma ha fatto è stato cambiare il tipo di comunicazione con il figlio.
Consigliati da LinkedIn
Davanti ai casi di hikikomori infatti, quello che bisogna fare è lavorare per far uscire dalle gabbie comunicative in cui è intrappolata la relazione genitori-figlio.
Usciti dalla gabbia educativa che tiene bloccata la relazione, i figli escono dalla camera.
TERZO RISULTATO: BISOGNI E DESIDERI EMERSI
Ponendo domande aperte e rimanendo in ascolto (Come stai? Come è andata la tua giornata?), anziché suggerire e consigliare, parlare di sé condividendo qualcosa del proprio lavoro invece di preoccuparsi se avesse fame o avesse mangiato, si è di fatto lasciato spazio a che emergessero tutta una serie di desideri e di bisogni che il ragazzo cerca di comunicare ai genitori, e in particolare alla madre, attraverso il comportamento di chiudersi in camera.
Negli scambi comunicativi di questi 3 giorni che la mamma si è annotata è emerso che suo figlio:
si sente trattato come un bambino
vive come un’intromissione nella sua vita le attenzioni dei genitori
pensa di fare schifo (e quindi non vuole essere visto dagli altri)
si sente in colpa per non corrispondere alle aspettative che hanno su di lui i genitori
sentendosi in colpa, si autopunisce chiudendosi in camera
e cerca di far sentire a loro volta in colpa i genitori per come si comportano con lui.
Ecco che allora il comportamento di chiudersi in camera e isolarsi dal mondo non solo gli consente di soddisfare tutti questi desideri, ma al tempo stesso di comunicarli ai genitori.
Essere riusciti a farli emergere è ciò che consentirà a questa mamma di adottare quei comportamenti comunicativi più funzionali per sé, per suo figlio e per la loro relazione.
Ma soprattutto per far sì che suo figlio possa vivere appieno la propria vita, sentendosi amato e non controllato, sostenuto e non comandato.
PASSARE DA “È LUI CHE…” ALLA “SERENITÀ”
Oggi la mamma era molto serena e soddisfatta di sé e, visibilmente emozionata, mi ha ringraziato. In realtà sono io che ho ringraziato lei per quello che ha fatto.
Per essersi messa così profondamente in gioco: non è mai facile farlo, quando si è adulti, quando si è provato di tutto, quando si ama in modo smisurato un figlio, quando è chiaro ed evidente che è lui a sbagliare.
Quando è lui che...
si chiude in camera.
risponde male.
non studia.
non rispetta le regole.
non ascolta, non obbedisce.
sta tutto il giorno attaccato ai videogiochi.
a notte fonda chatta con gli amici.
È lui che..
Ecco, questa mamma ha tutta la mia ammirazione e stima perché ha avuto la forza e il coraggio di scegliere di passare dal “È lui che…” alla serenità.
COSA FARE
Quello che è importante sapere in queste situazioni è che:
Ogni comportamento comunica qualcosa. Per cui nei comportamenti che più ti preoccupano o ti fanno infuriare di tuo figlio c’è racchiuso il suo tentativo di comunicarti qualcosa. Qualcosa per il quale gli mancano le parole. Spetta a te il compito di farli emergere e di aiutarlo a trovare le parole per esprimerlo e realizzarlo.
Quando ci si trova ad affrontare situazioni simili, spesso ci si sente impotenti, di girare a vuoto, di continuare a sbattere la testa contro il muro e si finisce con il disperare di non venirne mai a capo.
Ecco, quello che voglio dirti in questi casi è che senza gli strumenti adeguati anche il miglior chirurgo commetterebbe un sacco di errori e si sentirebbe incapace.
Per questo se anche tu, come questa mamma, vuoi avere gli strumenti più efficaci per vivere al meglio la relazione con tuo figlio e sentirti autorevole e realizzato come genitore e sereno che lo stai crescendo sicuro, libero e felice, richiedi una videochiamata gratuita di 30 minuti (link nel primo commento) in cui capiremo insieme se e come io e il mio percorso #genitoriconleali possiamo essere la soluzione giusta per te e la tua famiglia.