De-dollarizzazione: Il dollaro statunitense sta perdendo il suo ruolo dominante?
Il dollaro statunitense è la principale valuta di riserva al mondo ed è anche la valuta più utilizzata per il commercio e le transazioni internazionali. Tuttavia, la sua egemonia viene sempre più messa in discussione, in particolar modo dopo i cambiamenti geopolitici che hanno visto il delinearsi di differenti blocchi commerciali a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina e della crescente competizione tra Stati Uniti e Cina. A ciò si aggiunga la retorica elettorale di una possibile svalutazione della moneta per ripristinare la competitività delle aziende americane.
La de-dollarizzazione implica una significativa riduzione dell’uso del dollaro nel commercio mondiale e nelle transazioni finanziarie, con un calo della domanda per il biglietto verde da parte di paesi, istituzioni e aziende. Questo ridurrebbe il predominio del dollaro nei mercati globali dei capitali, in cui debitori e creditori di tutti i paesi effettuano transazioni nella valuta americana.
Ci sono due generi di fattori che potrebbero erodere lo status del dollaro: uno di carattere interno al paese, se consideriamo la possibilità che eventi avversi minino la percezione di sicurezza e stabilità del dollaro e quindi la posizione di egemonia economica e politica degli Stati Uniti nel mondo. Ad esempio la crescente polarizzazione potrebbe portare con sé crescenti tensioni sociali ed un tema di governance del paese. Esistono poi dei fattori di carattere esterno al sistema americano che potrebbero favorire l’ascesa di una reale alternativa al biglietto verde. Molti pensano che la Cina sia la candidata principale al ruolo di nuova potenza egemone.
La de-dollarizzazione sposterebbe gli equilibri di potere tra i Paesi, dinamica che potrebbe a sua volta rimodellare l’economia ed i mercati globali. L’impatto sarebbe maggiormente avvertito negli Stati Uniti, dove il fenomeno probabilmente porterebbe ad una vasta svalutazione ed ad una sottoperformance degli asset finanziari statunitensi rispetto al resto del mondo.
Alcuni segnali di de-dollarizzazione sono evidenti nel settore delle materie prime, dove le transazioni energetiche sono sempre più spesso denominate in valute diverse dal dollaro. Ad esempio, il petrolio russo esportato verso est e sud viene venduto nelle valute locali degli acquirenti e così come fa la Russia, il secondo maggior esportatore di petrolio al mondo, potrebbero cercare di fare gli altri produttori mondiali. Inoltre, le banche centrali, in particolare quelle dei mercati emergenti, stanno aumentando le loro riserve di oro nel tentativo di diversificare un sistema finanziario centrato unicamente sul dollaro. Secondo il team di ricerca globale sulle materie prime di J.P. Morgan, le banche centrali hanno acquistato collettivamente un totale netto di 1.136 tonnellate di oro nel 2022, il livello di domanda annuale più alto mai registrato, e altre 1.037 tonnellate nel 2023. Sempre secondo il team "Questo riduce la loro necessità di riserve precauzionali di dollari statunitensi e titoli del Tesoro americano, liberando così capitali da destinare a progetti domestici che favoriscono la crescita”.
A livello globale, i nuovi sistemi di pagamento si stanno evolvendo rapidamente e stanno facilitando le transazioni transfrontaliere senza il coinvolgimento delle banche statunitensi. Ad esempio, il Progetto mBridge è una piattaforma multi-valuta digitale che connette banche centrali e commerciali in Cina, Hong Kong, Thailandia, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, senza fare affidamento sul dollaro. "La spinta verso l’autonomia nei pagamenti, alimentata dalla tecnologia, è forse il rischio più sottovalutato per l’egemonia del dollaro” afferma il team di ricerca di J.P. Morgan. Inoltre, il ruolo della Cina come attore principale nel settore dell’e-commerce potrebbe ulteriormente erodere quote al dollaro. Il mercato globale dell’e-commerce è stato valutato intorno ai 5,8 trilioni di dollari nel 2023, con la Cina che rappresenta circa la metà di questa cifra.
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Gli Stati Uniti sono il secondo maggiore esportatore di beni al mondo, ma la loro quota nel commercio globale è diminuita negli ultimi anni. Tuttavia, questo calo può non dipendere necessariamente dal processo di de-dollarizzazione. Ad esempio le minori esportazioni potrebbero spiegarsi con un aumento della domanda domestica o con il crescente peso del settore dei servizi nell’economia.
Anche la quota del dollaro nelle riserve valutarie, il parametro più comunemente analizzato per misurare il predominio della valuta, è diminuita, in particolare nei mercati emergenti. Le riserve valutarie delle banche centrali sono tipicamente detenute in dollari statunitensi, ma ora quest’ultimo viene sempre più spesso sostituito da altre valute. Secondo l’articolo, nonostante ciò, le riserve valutarie offrono un quadro incompleto dell’accumulo di asset esteri da parte di un paese. L’aumento dei depositi bancari denominati in dollari, dei fondi sovrani e degli asset privati esteri compensa ampiamente il calo della quota complessiva del dollaro nelle riserve valutarie dei paesi emergenti.
Il team di ricerca di J.P. Morgan conclude che nel complesso, nonostante le tematiche esposte, i rischi legati ad una de-dollarizzazione immediata non appaiono verosimili. Sicuramente il tentativo di ridurre la dipendenza dal dollaro in un’ottica di diversificazione è un trend in crescita, ma continuano a persistere dei fattori fortemente radicati e di natura strutturale a sostegno del predominio della moneta americana. Il suo ruolo è supportato da mercati di capitale ampli e liquidi, dallo stato di diritto e da sistemi legali prevedibili, dall'impegno per un regime di cambio fluttuante e dal buon funzionamento del sistema finanziario chiamato a garantire liquidità e trasparenza istituzionale. "In definitiva, una significativa erosione del predominio del dollaro richiederà probabilmente decenni."
Il contenuto è tratto dalla sezione “Insights” dedicata alle currencies del sito di J.P. Morgan.
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3 settimaneInteressante analisi Paolo!