Di nuovo in viaggio
Ritorno a Dante dopo il mio precedente post del 3 maggio, quindi dopo una pausa di circa tre mesi. Tre come le Cantiche, come i versi endecasillabi che compongono le terzine, come le rime ripetute tre volte, come “lo fattore per se medesimo de li miracoli” e come la “mirabile Trinitade”. Ma non è il caso di pontificarci sopra troppo. Si tratta di una coincidenza, nemmeno poi così interessante.
In questi mesi ho terminato la lettura della Divina Commedia e poi ho cominciato daccapo. Non ho mai smesso, in effetti. Ho acquistato altre edizioni della Commedia, ho letto diversi altri commenti, ma la verità è che avevo il desiderio, forse il bisogno, di riprendere il viaggio o meglio di “tenere altro vïaggio” (v. 91) come consiglia Virgilio a Dante “se vuo’ campar d’esto loco selvaggio” (v. 93). È un viaggio, quello che facciamo insieme a Dante, che è anche una discesa nella profondità di se stessi (e speriamo di non trovarvi un abisso).
Riprendo quindi dall’inizio, dal Canto I° dell’Inferno, da quelle prime terzine che più o meno tutti conosciamo a memoria, senza sapere nemmeno da quanto.
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinnova la paura!
Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.
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(Inferno, Canto I, vv. 1-9)
È capitato a tutti di sentirsi perduti. E magari fosse stato solo una volta nella vita. Dante racconta quello che è successo a lui, ma scrive “nostra vita”, affermando implicitamente che l’esperienza che sta per descrivere riguarda tutti, ma in particolare quel lettore unico che ciascuno di noi è, il quale, leggendo i versi della Commedia, li anima della propria esperienza nel momento biografico, storico e irripetibile che sta vivendo.
Anche quello che succede dopo più o meno lo ricordiamo tutti e lo ricordiamo perché qualcosa di simile è successo anche a noi. Al pari di Dante non rammentiamo come abbiamo fatto a cacciarci nella selva (nella disperazione, nel peccato) né ci ricordiamo come ne siamo usciti, ma in un modo o nell’altro ne siamo venuti fuori o così ci appare, visto che finiamo per ritrovarci di fronte ad altri ostacoli o peccati o vizi o cattive disposizioni d’animo (la lonza, il leone, la lupa; rispettivamente la Lussuria, la Superbia, l’Avarizia secondo una delle tante interpretazioni), che minacciano di ricacciarci indietro.
Da qualche parte c’è una via d’uscita, la salvezza, e pur vedendola talvolta non sappiamo come arrivarci. E allora fortunato è colui al quale arriva in sorte un Virgilio, un maestro/amico/padre che vuole il nostro bene (“per lo tuo me’, v. 112) e sa come condurci in salvo, a patto che si scelga di seguirlo e ci si prepari a un viaggio che comincia tra le “disperate strida” (v.115), che non è ben chiaro se siano quelle degli “antichi spiriti dolenti” (v.116) oppure le nostre.
E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
acciò ch’io fugga questo male e peggio,
che tu mi meni là dov’or dicesti,
sì ch’io veggia la porta di San Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti».
Allor si mosse, e io li tenni dietro.
(Inferno, Canto I, vv. 130-136)