Dipendente o dirigente scarso?
Ti sei mai chiesti come accorgerti quando il tuo dipendente ha troppo da fare? Con che strumenti puoi misurare il troppo carico lavorativo?
Magari fa troppe pause, è inefficace nella produzione o nel raggiungimento degli obiettivi, ma ti sei chiesto se c’è qualche altro elemento che influisce e che è cambiato sulla performance del dipendente? Hai provato a pensare a cause esterne o proprie della persona? O meglio ancora (la colpa non ci interessa), in che modo io posso influenzare positivamente la situazione?
È più facile avere strumenti punitivi, di basso controllo per correggere, ma facciamo più fatica a pensare a strumenti per aiutare e supportare il collaboratore.
L’umiltà diventa ai giorni nostri qualità da coltivare dal manager che vuole far funzionare le cose.
Strada più faticosa nell’immediato, è costellata da una continua tensione curiosa e di sorpresa verso gli accadimenti dell’impresa e delle persone che la abitano.
Quindi, come mi accorgo se il mio / la mia dipendente ha bisogno di un supporto?
Un primo item da tenere in considerazione è il tempo di attivazione, un indice di qualità andato perso tranne in alcuni specifici casi. Non tanto quale parametro di efficienza, ma quale campanello di attenzione per un intervento sull'organizzazione dei processi.
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Fare degli errori al lavoro è inevitabile, peccato che per legge non vi sia una percentuale di tolleranza associata. Scovare gli errori degli altri dà una certa soddisfazione perché ci fa sentire meglio con i nostri errori. Possiamo e dobbiamo fermarci qua con il godimento, lo segnaliamo ma facciamolo senza puntare il dito o fomentare il senso di colpa o di frustrazione o di fastidio nei nostri confronti. Perché se uno sbaglia non è semplicemente lui il colpevole, se ha sbagliato le motivazioni vanno ricercate fuori dal singolo o potremmo incorrere in diversi e maggiori rischi, oltre a perpetrare un sentimento di debolezza, rinuncia e di vittimismo, di irresponsabilità, di schiavitù nei confronti delle cose che accadono. Ogni persona poi è artista nel riuscire a non ammettere i propri errori, ma questo perché ha fastidio e paura della conseguenza dell’errore (una valutazione negativa, la mancanza di un premio o di una “carezza”). La paura è data dalla percezione, e questa è data tanto dal cosa c’è dentro una persona e da quanto sta fuori, dai messaggi che riceve dall’ambiente. In quanto manager, chiamati a gestire diverse risorse, dobbiamo interrogarci su quali sono i messaggi che noi inviamo e quali strumenti adoperiamo, quali totem e divulgatori utilizziamo per veicolare il (nostro?) messaggio, il pensiero e la cultura che vogliamo (dobbiamo?) trasmettere; inoltre, essi sono coerenti con l’intero sistema? Un esempio. Diciamo che è possibile sbagliare, che non condanniamo l’errore perché esso ci spinge a migliorare… però se sbagli è colpa tua e non ricevi il premio! Il messaggio quindi non è l’errore ci aiuta a migliorare come sistema, affatto, ma se c’è un errore, lo hai commesso tu e sei solo tu come persona a dover migliorare, non l’azienda che ha pensato (magari!) il processo: ci dimentichiamo però che l’organizzazione è asservito ed è e deve essere funzionale e seguire le persone che la abitano e risponde alla comunità -di persone- con cui dialoga fuori.
Provate ad immaginare di entrare in un negozio senza sapere la vostra taglia, anzi, peggio ancora, sapete di avere una S. Provate una prima maglia e non vi sta, ne vorreste una più larga, ma il negozio non ve la dà o non ne ha. Ecco siete nella situazione di chi non ha abbastanza tempo ed un sacco di cose da fare, troppe per una S (o una M, o una L, XL, ...). Come mai? Quali sono poi le conseguenze? Cosa posso fare per evitare la situazione?
L’errore ci permette di cambiare e di migliorare, se non siamo indulgenti verso l’errore cresceremo personale ottuso, che vuole avere ragione e non capire.