Dittatura e linguaggio giuridico

Dittatura e linguaggio giuridico

C’è tra diritto e linguaggio un’intima relazione che va ben oltre i confini della pratica giudiziaria. L’innocenza o la colpevolezza di un imputato ovvero le ragioni creditorie di un cliente dipendono in modo molto più profondo di quanto normalmente si ritenga dall’abilità oratoria dell’avvocato e dal conseguente apprezzamento delle prove compiuto dal giudice. Quando infatti si parla di effetto performativo della sentenza non si dovrebbe solo fare riferimento alle conseguenze giuridiche dell’atto, ma anche a quelle ontologiche: il provvedimento conclusivo del processo non accerta la preesistente realtà delle cose (alla quale non possiamo mai accedere direttamente), ma in un certo senso la crea.

In tale prospettiva, una maggiore capacità di linguaggio ci consente di formulare concetti sofisticati, ci abilita al ragionamento raffinato, tale che senza la parola ci è negata la possibilità non solo di esprimere determinate idee, ma di pensarle perfino, poiché è impossibile elaborare pensieri a prescindere dalla loro codificazione linguistica (o, a voler concedere, è comunque difficilissimo).

Ma possiamo andare anche oltre, spingendoci a dire che le cose esistono solo in quanto conosciute, sicché il linguaggio non è solo il veicolo che ci permette di comprendere il mondo, ma è ciò che lo origina. Esso è cioè un atto creativo in tutto e per tutto, tanto fecondo quanto più con esso si è capaci di trasmettere all’interlocutore un significato e di farlo partecipe della nostra realtà.

Muovendo da tali presupposti, non mi riconosco affatto nello stile prolisso e pomposo che spesso caratterizza gli atti giuridici e gli interventi in aula, e che ormai hanno anche invaso il linguaggio comune. Gli inutili tecnicismi, l’eccessiva verbosità e l’impiego smodato di latinetti e inglesismi non solo rendono debole il pensiero, ma ostacolano la comunicazione. È naturale quindi proporre l’abbandono di modelli retorici stantii e caldeggiare l’adozione di una prosa fluida, più vicina al linguaggio naturale, popolare perfino, proprio per evitare che le nostre ragioni, seppur fondate, ci sfuggano o, nella migliore delle ipotesi, rimangano prigioniere nella nostra mente perché l’atto comunicativo è sterile. L’uso di una corretta sintassi, fatta di periodi brevi costruiti con il giusto repertorio di vocaboli, non solo svela gli errori e le ambiguità di cui altrimenti potremmo essere inconsapevoli, ma distingue il giurista dal leguleio.

Proprio nel mezzo di tale distinzione, stigmatizzo un altro aspetto problematico della relazione tra lingua e diritto: la tendenza di alcuni giudici e avvocati a far uso del parlare oscuro escludendo imputati e clienti dalla dialettica processuale. Tale atteggiamento impedisce di avvalersi del prezioso aiuto che potrebbe dare il diretto interessato alla propria difesa e contribuisce a creare e rafforzare quel rapporto antidemocratico esistente tra istituzioni e cittadini, particolarmente avvertito nel nostro Paese.

Questo ulteriore effetto si innesta nel più generale rapporto esistente tra linguaggio e democrazia; rapporto altrettanto profondo di quello sopra visto ed esistente tra linguaggio e pensiero. E sì perché i testi normativi, gli atti della pubblica amministrazione e i provvedimenti giudiziari sono la bocca dello Stato, sono cioè i mezzi attraverso cui esso si rivolge al popolo. E quanto più tali testi sono incomprensibili, tanto più sono subìti e rendono il cittadino elemento passivo della relazione comunicativa.

Siamo ormai abituati a leggere periodi interminabili, assuefatti all’antilingua dove si affastellano subordinate come fossero matrioske, si susseguono espressioni stereotipate, formule logore e svolazzi retorici che – se mai nelle intenzioni dell’autore vorrebbero impreziosire il testo o renderlo più autorevole – lo infarciscono brutalmente facendone un’opera leziosa che fa storcere il naso al lettore.

Il linguaggio elitario, quello sovrabbondante che si agghinda di espressioni pleonastiche, favorisce le derive assolutistiche (proprio così!) diventando strumento dei burocrati per tener lontani i cittadini dalla partecipazione democratica, poiché sussiste una vera e propria identificazione tra burocratese e oligarchia tale che non può dirsi tra i due quale sia la causa e quale l’effetto.

Ma una cosa è certa, e cioè che gli avvocati, che si pongono per vocazione come intermediari tra istituzioni e cittadini, hanno il dovere di sottrarsi a questo gioco al ribasso e devono palar chiaro adottando una prosa immediata che nulla tolga al “volgare”, se occorre. Devono evitare, insomma, di prestarsi alla dittatura del linguaggio.

Chiudo citando Galileo Galilei (Il Saggiatore): «Se il discorrere circa un problema difficile fosse come il portar pesi, dove molti cavalli porteranno più sacca di grano che un caval solo, io acconsentirei che i molti discorsi facessero più che uno solo; ma il discorrere è come il correre, e non come il portare, ed un caval berbero solo correrà più che cento frisoni».


P.S.: Per chi volesse approfondire, rinvio a Lingua e diritto – Scritto e parlato nelle professioni legali, a cura di Federigo Bambi e A. Mariani Marini, 2013, PISA University Press, e soprattutto, Massimo Baldini, Parlar chiaro, parlare oscuro, Laterza, 1989 (riedito e aggiornato nel 2004 con il titolo, Elogio dell’oscurità e della chiarezza, Armando Editore – Luiss University Press).

Federico Ponte

Drafting normativo e qualità della regolazione | Ph.D. | Funzionario legislativo Consiglio regionale della Liguria

3 anni

Molto vero (lapalissiano?) e condivisibile! Aggiungo solo che, ahinoi, il problema spesso sta a monte: la legge che siamo quotidianamente chiamati ad applicare infatti non presenta meno complessità. Sebbene siano altre le ragioni che stanno alla base, spesso è possibile (e auspicabile!) un significativo processo di semplificazione.

Alfredo Barbaranelli

Consigliere del CD Istituto Governo Societario

3 anni

Carissimo, è l'annoso problema dell'oratore italiano medio. Chi ha cultura anglosassone predilige una dialettica diretta, chi ha una cultura mediterranea, ne predilige una barocca. Una volta mi è capitato di leggere in un ricorso per cassazione, il termine "impingere" con il significato di "spingere a". Chiesi all'avvocato redattore il significato e mi guardò in tralice come a voler dire"non lo sai? ". In certi casi alcuni termini tecnici non possono essere sostituiti: cessionario, committente, erogazione, ma se la frase potesse essere corta e far comprendere subito il significato delle cose, allora io e te, forse avremmo meno clienti. Sono convinto che in ogni cosa ci vuole una misura. Oltre al burocratese, esiste anche il legalese (basta dare un'occhiata ai tanti decreti covid), che viene usato appositamente per indurre in errore e spesso la frase viene intesa con un significato contrario di ciò che vuole rappresentare nella realtà. Ad majora.

Daniele Majorana

Dottore Commercialista in Milano - ICAEW Chartered Accountant

3 anni

Al riguardo consiglio la lettura delle sentenze della CJEU, molto più chiare della dottrina che le commenta, compresa la mia

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