Donna Matelda, Contessa Guidi - racconto di Gabriella Zonno
Il ritorno a Milano, dopo giorni trascorsi tra le colline cupe e vellutate della Toscana, mi lasciava in uno stato di disorientamento quasi fisico. Le strade rumorose, le carrozze che sfrecciavano lungo i viali, il caos vibrante di persone e commerci: tutto mi sembrava irreale, come un sogno sfocato. Ogni dettaglio della città mi sfuggiva, mentre i miei pensieri rimanevano incatenati là, in quel castello antico che sorgeva come un monolite oscuro tra le nebbie delle valli. Il castello di Poppi.
Ricordo perfettamente l'odore delle pietre umide, il modo in cui l'aria sembrava fermarsi appena si oltrepassava la soglia, come se le antiche mura volessero trattenere i segreti del tempo passato. Quelle sale erano immerse in un silenzio quasi oppressivo, un vuoto di suono riempito solo dai passi leggeri della guida e dal suo sussurrare monotono. Eppure, ogni eco, ogni ombra proiettata sui muri screpolati, pareva animarsi, come se nascondesse una vita propria. C'era qualcosa di sinistro in quel luogo, qualcosa che mi faceva sentire osservata, come se i muri stessi avessero occhi e orecchie.
Fu in una di quelle sale desolate, tra armature arrugginite e arazzi sbiaditi, che la guida iniziò a raccontare la storia della Contessa Matelda. E lì, tra le pieghe del tempo e del tessuto, la sua voce scivolava nei miei pensieri come un veleno sottile, iniettando un terrore freddo, silenzioso, ma irresistibile.
Matelda! Contessa, spettro, carnefice e vittima di se stessa. Il suo nome riecheggia nelle profondità del castello come un lamento eterno. Si diceva che fosse una creatura di eccezionale bellezza, ma questa bellezza, come tutto ciò che è maledetto, nascondeva al suo interno una trappola letale. Matelda non era fatta di carne e ossa come gli altri; sembrava piuttosto una visione, un fantasma incarnato che si aggirava tra gli ospiti della sua dimora, scegliendo le sue prede con un sorriso ammaliante, ma vuoto.
I giovani uomini che osavano avvicinarsi a lei venivano risucchiati nel vortice della sua follia. Lei li attirava, li seduceva con sguardi lenti e languidi, li avvolgeva nelle sue spire mortali, fino a quando la loro volontà si disfaceva come nebbia al sole. Una volta intrappolati, venivano condotti in stanze oscure, perdute tra i meandri del castello, e lì svanivano, come ombre consumate da un fuoco sotterraneo. Le mura stesse sembravano impregnate delle loro urla silenziose, i loro corpi mai ritrovati, i loro nomi mai più pronunciati.
Ma tra queste mura, c’era un uomo che aveva osato sfidare il destino. Un uomo che, pur conoscendo le voci oscure che circolavano sulla contessa, non poteva, non voleva, credere a tali abomini. Il suo nome era Gregorio, duca di una stirpe nobile e antica, ma il cui cuore, povero cuore, era destinato a essere spezzato.
Era una notte di settembre quando il giovane duca varcò la soglia del castello di Poppi, attratto non solo dalla fama della contessa, ma da un desiderio profondo di comprendere quell'anima tormentata. La luna piena, pallida e solitaria, illuminava appena i contorni del maniero, gettando lunghe ombre sui campi che si estendevano a perdita d'occhio. Il vento sussurrava tra le torri, quasi volesse avvertirlo di un pericolo imminente, ma Gregorio non ascoltava altro che il battito del proprio cuore, il cuore di un uomo che già aveva ceduto all'idea di un amore impossibile.
Matelda lo attese nella grande sala delle candele, il suo volto incorniciato dalla luce tremolante che pareva renderla ancora più eterea, quasi irreale. Quando i loro occhi si incontrarono, ci fu un momento in cui il tempo sembrò arrestarsi, e Gregorio comprese che, nonostante tutto, lui l'amava. Non era solo la sua bellezza che lo aveva conquistato, ma la profonda malinconia che traspariva dai suoi occhi, un dolore antico che la contessa sembrava portare come una corona di spine.
Le loro conversazioni, avvolte nel silenzio della notte, divennero intime e struggenti. Gregorio scoprì in Matelda un'anima afflitta, costretta a vivere in un eterno limbo tra la vita e la morte, tra il desiderio di essere amata e la paura di distruggere tutto ciò che toccava. Ogni sera si incontravano nella torre più alta, da dove si potevano vedere le colline lontane, illuminate dalla fredda luce delle stelle. E lì, sotto quel cielo infinito, Gregorio le sussurrava parole d'amore, promettendo che un giorno avrebbe spezzato le catene che la tenevano prigioniera del suo passato.
Matelda, tormentata dai propri demoni, sapeva che quell’amore non poteva esistere. Ogni passo che faceva verso di lui la avvicinava anche alla sua distruzione, come un fuoco che divora tutto ciò che lo circonda.
La luna filtrava dalle alte finestre del castello, gettando lame d'argento sulle pietre antiche. Gregorio, con il cuore in tumulto, attendeva nella sala, i suoi occhi verdi scrutavano ogni ombra in cerca di lei. Matelda apparve come un’ombra stessa, scivolando tra le colonne, i suoi capelli corvini ondeggiavano leggermente, e i suoi occhi neri brillavano come due stelle nel firmamento oscuro.
Quando i loro sguardi si incontrarono, ci fu un attimo di silenzio. Matelda si fermò, il respiro appena percettibile. Gli occhi di Gregorio, verdi e luminosi, la fissavano con un’innocenza che lei non aveva mai conosciuto. Il suo cuore, sempre avvolto nelle tenebre, fu scosso da un moto improvviso di tenerezza.
«Perché sei venuto qui, Gabriele?» mormorò lei, la voce un sussurro che si perdeva nell’aria quieta della sala.
Gregorio si avvicinò, le sue spalle larghe e il portamento sicuro, ma c'era una dolcezza nei suoi movimenti che Matelda non poteva ignorare. «Matelda,» disse lui, la sua voce era calda, sincera, «io non temo il destino, se questo destino mi porta da te.»
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Matelda abbassò lo sguardo, il cuore battendole forte. «Sei un pazzo, Gregorio. Non sai cosa dici. Sono stata maledetta. Non c'è salvezza per chi ama una creatura come me.»
Gregorio si avvicinò ancora di più, e il contrasto tra la sua figura alta e tonica e la magra delicatezza di Matelda divenne più evidente. Con una mano tremante, ma risoluta, sollevò il mento di lei, costringendola a guardarlo negli occhi. «Io vedo in te una luce che nessuna maledizione può spegnere.»
Matelda tremò sotto quel tocco. I suoi occhi neri, così abituati a nascondere segreti oscuri, si spalancarono di fronte alla purezza di quello sguardo.
Gregorio sorrise appena, il suo sguardo non lasciava il volto di lei, come se volesse penetrare ogni barriera che Matelda aveva eretto intorno al suo cuore.
Lei si allontanò di un passo, come spaventata da ciò che stava provando. «Non devi amarmi. Non posso amarti. Se lo facessi, ti distruggerei.»
Gregorio, però, non si lasciò intimidire. La seguì, lentamente, il suo volto serio ma determinato. «Non hai capito, Matelda. Io non ho scelta. Il mio cuore è già tuo.»
In quell'istante, la tensione che aleggiava tra loro sembrò rompersi, come un fiume che straripa dagli argini. Matelda fece un passo verso di lui, le sue mani magre salirono tremanti lungo il petto di Gregorio, sentendo sotto le dita il calore del suo corpo tonico, la forza che emanava da lui come un’energia irresistibile. Il suo respiro si fece più rapido, il cuore martellava contro le sue costole come se volesse liberarsi da un'angoscia troppo a lungo repressa.
«Non posso...» sussurrò, ma le sue parole vennero inghiottite dal desiderio che ormai non riusciva più a dominare. Trascorsero la notte amandosi.
E così, sul far dell’alba Matelda svegliando dolcemente Gregorio ancora assonnato, lo condusse nella torre, dove molti prima di lui avevano trovato la loro fine.
La luna si nascondeva dietro una nube oscura, un lampo di consapevolezza attraversò lo sguardo di Gregorio. Capì, in quell’istante, che Matelda stava per ucciderlo, non per odio, ma per disperazione, per il terrore che l’amore potesse renderla vulnerabile. Lottò contro il suo destino, sfuggendo per miracolo dalla sua stretta mortale, e fuggì dal castello, il cuore spezzato, ma ancora battente.
Gregorio non si riprese mai da quell’amore. Decise di non sposarsi, e la sua famiglia, nel disperato tentativo di farlo tornare alla ragione, non poté far altro che assistere alla sua lenta rovina. La sua anima era rimasta imprigionata in quel castello, tra le mura fredde e silenziose, accanto a Matelda. E così, morì solo, senza eredi, portando con sé nella tomba il ricordo di quell’amore perduto, come un segreto che nessuno avrebbe mai compreso.
E ora, il castello di Poppi sorge ancora, oscuro e inviolato, come una sentinella maledetta di un tempo che non può più essere. Nelle notti più nere, quando la luna si nasconde dietro un manto di nuvole e il vento soffia con il fragore di anime disperate, qualcuno dice di udire ancora i passi di Gregorio, che risuonano tra i corridoi vuoti, mentre chiama il nome di Matelda. Il suo amore per lei, un tempo così vivo e ardente, è ora un eco senza risposta, un richiamo perduto nelle ombre di un castello che custodisce il segreto dell’eterno.
Matelda, condannata a vagare tra i ricordi di ciò che è stato e di ciò che non potrà mai essere, attende. Attende che Gregorio torni, che l’oscurità si dissipi, che il perdono, forse, possa raggiungerla. Ma il tempo è crudele, e le ombre si allungano, divorando tutto ciò che un tempo era luce. Solo il vento rimane a raccontare la storia, e nelle sue raffiche si possono ancora udire i sussurri degli amanti perduti, intrappolati per sempre tra la vita e la morte.