E adesso la felicità!

E adesso la felicità!

“Felicità, improvvisa vertigine Illusione ottica, occasione da prendere”

Samuele Bersani

 

Bisogna farci caso alla felicità, ce lo ricorda Kurt Vonnegut in un suo fortunatissimo libro. Da ragazzino non ci pensi, non sai nemmeno definirla la felicità, cerchi solo di viverla a modo tuo. Quanto a me utilizzavo, come tutti, dei modelli di riferimento. Il più popolare apparteneva non a un filosofo contemporaneo, né tantomeno a un saggista o a un esperto di sociologia della comunicazione ma a una coppia di artisti che aveva eletto domicilio in quel di Sanremo. Sto parlando di Al Bano e Romina Power che attraverso un tormentone dell’epoca ci hanno catechizzato sul fatto che la felicità risiede nelle piccole cose come possono esserlo, ad esempio, un bicchiere di vino ed un panino. Uno schema rassicurante, bucolico, quasi da focolare. Potrebbe sembrare una semplificazione e in parte lo è. Diciamo che l’obiettivo è quello di valorizzare i momenti e anche i luoghi dove siamo stati felici, fosse anche solo per cinque minuti. Non occorre fare chissà quali ragionamenti per evidenziare due fattispecie che si rifanno alla dimensione privata e a quella lavorativa. Due mondi molto diversi, a volte conflittuali, in cui il nostro modo di essere muta, un po’ come vestire un abito diverso a seconda delle circostanze. Ma qualcosa sta cambiando. Mi riferisco in particolare al moltiplicarsi di iniziative che buona parte delle aziende mette in campo al fine di misurare il benessere dei propri collaboratori. Perché ci interessa monitorare quell’indicatore? Perché il benessere è strettamente correlato ai risultati di business ma c’è anche una considerazione economica che giustifica gli sforzi, soprattutto finanziari, che le aziende stanno compiendo con alterne fortune a dire il vero. Il mercato globale del benessere vale attualmente circa 70 miliardi di dollari e si stima che entro il 2028 toccherà quasi 96 miliardi di dollari con un incremento del 37% circa come evidenziato dal report prodotto da The Business Research Company ®. Questo sforzo senza precedenti di sicuro ha prodotto o sta producendo consapevolezza ma potremmo ritenerci soddisfatti? A leggere un recente rapporto di Gallup ® risulta molto evidente che a fronte di un aumento generalizzato degli investimenti su tematiche di benessere, la salute mentale dei dipendenti continua a peggiorare. Il 79% del campione intervistato ritiene che la propria azienda non si preoccupi nel profondo del benessere dei propri collaboratori evidenziando come superficiali molte delle iniziative messe in campo. Si va affermando una tendenza che gli esperti definiscono “Carewashing” che vuole sottolineare la necessità di trovare una coerenza tra le parole enunciate e le azioni messe in campo. Se questa coerenza non si realizza la disaffezione nei confronti dell’azienda aumenta e il malessere non trova risposte efficaci e finisce per radicalizzarsi. L’Osservatorio HR Innovation Practice® del Politecnico di Milano si è spinto addirittura oltre cercando di analizzare il fenomeno restituendoci dei dati che fanno senza dubbio riflettere. Pensiamo al tema delle grandi dimissioni che viaggia a doppia cifra, siamo intorno all’11%. Un dato consolidato che tiene conto delle persone che hanno realmente formalizzato le dimissioni e hanno lasciato l’azienda. Se a questo numero, già di per sé drammatico, aggiungiamo quelli che hanno dichiarato di essere disponibili a rassegnare le dimissioni nei prossimi mesi, il valore aumenta fino a raggiungere il 42%. Parliamo di quasi una persona su due. E a complicare le cose ci sono quelli che pur avendo cambiato azienda si mostrano a distanza di poco tempo pentiti di averlo fatto sintomo di un’insofferenza non tanto nella singola azienda ma nell’intero sistema di organizzazione del lavoro. Malessere, disaffezione, disagio, chiamatelo come vi pare ma i dati ci dicono che le persone che non stanno bene al lavoro, per mille motivi non tutti pienamente comprensibili, sono una moltitudine, nove persone su dieci, il 91%, un esercito silenzioso che si misura quotidianamente con questo mismatch tra il proprio purpose individuale e quello aziendale e vive una situazione che potremmo definire di infelicità. Consideriamolo in ogni caso un upgrade perché siamo passati da una tema generale di benessere a uno più sartoriale che è quello della felicità. Argomento o meglio sentimento che non trova una collocazione culturale nell’interlocuzione col proprio manager o con una figura HR dedicata. Fa strano immaginare un responsabile rivolgersi a un proprio collaboratore dicendogli se si sente felice, se quello è il contesto dove la propria felicità trova diritto di cittadinanza e se possiamo immaginare, insieme, delle azioni, fossero anche piccole cose, per migliorare il livello di felicità dell’individuo. La stranezza è che non consideriamo la felicità come un elemento di business così come succede con i sogni, le speranze e la bellezza. Consideriamo questi aspetti laterali, come fossero un corpo estraneo che nulla hanno a che fare con il sinallagma contrattuale che subordina la corresponsione di un salario a una prestazione effettuata. Con questo schema elementare ci siamo misurati negli anni ma oggi quella casa confortevole che ha ospitato noi e le nostre ambizioni mostra delle crepe evidenti e da quelle crepe filtra una luce che ci fa rivalutare aspetti che pensavamo non appartenerci più. Penso al tempo, al concetto di flessibilità, alla curiosità di scoprire cosa c’è oltre quel muro e se quella cosa ha un valore e se quel valore è sostenibile per il mio essere una persona e non una risorsa. Quel disagio si può sconfiggere o quantomeno mitigare e non occorre chissà quale capacità. Basterebbe conoscersi un po’ di più, andare oltre le apparenze. Faticoso ma necessario e la notizia è che non c’è algoritmo che tenga o ci aiuta a trasformare quel disagio o quella disaffezione in un’opportunità. Dovremmo cercare di non disunirci come ci ricordava il regista Paolo Sorrentino in un suo film e di provare a cercarla con ostinazione evitando l’effetto Cherofobia ovvero la paura di essere felici. La conoscenza diventa così un passe-partout, ci apre porte che pensavamo chiuse da sempre e la responsabilità non può ricadere su un solo individuo, non è sostenibile mentre lo è un principio di responsabilità diffusa dove ognuno si adopera nell’esercizio di dare concretezza a un tema solo all’apparenza astratto come quello della felicità. E allora chiedimi se sono felice e ti risponderò che ci sto lavorando anzi, ci stiamo lavorando perché se tu mi fai questa domanda è già un momento di consapevolezza che mi fa sentire meno solo in questo viaggio che ha mille imprevisti ma che vale comunque la pena intraprendere. La vita è piena di opere straordinarie, pensiamo a come sono state costruite le piramidi, la fatica, l’ingegno, lo sperimentare ci hanno lasciato in eredità dei capolavori che sono resistiti a qualunque cambiamento. Il fine ultimo della bellezza è il fatto che resta e ci pervade e mentre assorbiamo tutto questo ci scopriamo felici di goderne. La piramide diventa anche la metafora che introduce un altro elemento di riflessione nel dibattito. Immaginiamola come un percorso, spesso faticoso, come magari salire le scale gradino dopo gradino. Man mano che saliamo ci avviciniamo alla meta ovvero a una felicità che potremmo definire compiuta e che si è consolidata attraverso la realizzazione di alcuni bisogni sulla falsariga della piramide di Maslow. Gli Osservatori Digital Innovation® del Politecnico di Milano hanno colto con sagacia in questa rappresentazione grafica gli aspetti da curare per giungere a una dimensione di felicità. Nella parte alta troviamo oltre alla Job Satisfaction anche il legame affettivo con l’azienda che si traduce in un pieno ingaggio del collaboratore.

E allora misuriamolo il benessere e misuriamo anche la felicità, ma facciamolo con convinzione e soprattutto in modalità one voice. Certamente pensare unicamente allo strumento della survey che periodicamente somministriamo alle nostre persone non è sufficiente se al contempo non sviluppiamo e incoraggiamo una cultura dell’ascolto e della relazione che si traduce in vissuto e quotidianità e che ci permette di intercettare eventuali disagi o comportamenti distonici prima che si trasformino in abitudini.  

Ci stiamo lavorando anche come BNL, sul benessere che si può tradurre in felicità dei dipendenti ed anche sulle aziende nostre clienti e i loro dipendenti (wellmakers). Secondo me dobbiamo mettere in campo anche maggiore presenza/relazione. Recentemente ho avuto il piacere di partecipare ad un incontro di territorio ed un collega ha espresso un tema che condivido, attenzione alle "periferie" della banca. Lo stiamo facendo in maniera egregia all' esterno con Inclucity, facciamolo anche per noi e tra di noi. Grazie Giovanni per il tema molto sentito, sensibile ed interessante.

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