E tu che capo sei?

Leggevo l’altro giorno su una rivista di settore che il primo motivo per cui uno decide di cambiare azienda è il rapporto con il proprio capo. Avete capito bene, non un incremento retributivo, un piano di carriera, l’avvicinamento a casa, ma la relazione con colui che dovrebbe essere il punto di riferimento della propria giornata lavorativa. I dati statistici sono suffragati dall'esperienza e dalle chiacchierate recenti che facevo con alcuni amici, colleghi del settore e non.

Ma cosa fa di male questo capo per causare così tante dimissioni? E come deve essere? Esiste il capo perfetto?  Rispondo a partire dalla mia esperienza: due sono i capi che ricordo con particolare gratitudine.

La prima: colei che mi ha insegnato un mestiere, mi ha preso da stagista neolaureato e mi ha, con estrema fiducia, affidato responsabilità, progetti da gestire, attività in cui giocarmi in prima persona. Contributi da portare che poi -con la sua innegabile competenza- integrava, modificava, correggeva. Non mi dava compiti, mi assegnava progetti da svolgere. Non mi dava ordini, stimolava la mia creatività. Non indicazioni preconfezionate, ma un foglio bianco su cui scrivere insieme una riga importante della storia aziendale.

Il secondo: colui che mi insegnato ad diventare uomo. Perché non si può essere un professionista HR senza giocarsi fino in fondo, nel rapporto con l’atro, la propria umanità. Da navigato uomo di azienda, nonché fondatore della funzione, mi ha “costretto” a guadagnarmi con pazienza la sua fiducia, a convincerlo che le idee innovative di HR che proponevo non andavano a minare l’unicità della persona che avevo di fronte, semmai a valorizzarla. A saper guardare me stesso, il lavoro e la vita con quel pizzico di autoironia che non guasta mai, a dare il giusto peso alle situazioni, ad essere curioso e appassionato come era lui, a spendere bene e nel giusto momento i miei talenti.

Ad di là di questo riconoscimento agli “auctores” (di dantesca memoria... ma guarda ha la stessa origine della parola “autorità”), come deve essere un buon capo?

Non un capo, ma un responsabile! Colui/colei che è capace (dal latino responsum abilis) di dare risposte non solo professionali ma che accolgano, valorizzino, esaltino -nella loro unicità- i diversi collaboratori con cui si trova a lavorare. Che rischi, a ragion veduta, la sua fiducia nell'altro. Che sia pronto a mettere da parte una propria idea se quella del collaboratore risulta migliore. Che lo valorizzi, lo stimoli, lo sfidi a dare sempre di più. Che rispetti i suoi momenti, che discretamente sia di supporto nelle difficoltà in cui tutti prima o poi ci troviamo.  

Gli esperti del settore lo chiamano sinteticamente leader situazionale, io preferisco definirlo, più semplicemente, un facilitatore che abbia a cuore le esigenze di fare della propria vita (lavorativa e non) qualcosa di grande che ciascuna persona ha scritto ontologicamente nel proprio animo.

E tu, che capo sei? 


Isabella Deleo

Hr, employee engagement, training, recruiting

7 anni

Grazie Marco della puntuale riflessione. Accogliere e rimettere al centro la persona è la modalità migliore per far crescere veri uomini/donne nella loro totalità. Negli ultimi anni ho avuto modo di collaborare con una "responsabile" che ha fatto accrescere in me la consapevolezza delle mie competenze hard e soft e anche dei miei limiti, che mi ha accompagnato per mano a prendere decisioni...per lei piuttosto difficili. Da "capo/responsabile/facilitatore" lascio le parole ad un detto cinese raccontatomi da una collega con la quale ho avuto il piacere di collaborare: "se un uomo ha fame e gli regali un pesce l'hai sfamato per un giorno. Se gli insegni a pescare l'hai sfamato per la vita".

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