EMPATICI… SI NASCE O SI DIVENTA?

Breve riflessione su un’abilità di cui oggi parlano tutti ma che, spesso, non si sa bene come e quando rafforzare. E se conviene farlo...

Si fa un gran parlare dell’Empatia. Spesso, fino a poco tempo fa, il solo citarla faceva sorridere in modo tenero e sarcastico allo stesso tempo. Soprattutto negli ambienti di lavoro…

Parlarne e definirla come un concetto (e una parola) di origine greca che significa “sentire dentro, sentire come sente l’altro, stare nei panni dell’altro”, è di certo la cosa più scontata. Il difficile sta nel capirne bene la portata e il valore.

Invece negli ultimi anni, quasi improvvisamente (ma non in modo inaspettato) dopo il successo dell’opera del Prof. Daniel Goleman, Intelligenza Emotiva, nella quale il concetto di Empatia è stato rivalutato in chiave estremamente moderna e attualissima, proprio dal mondo del lavoro stanno venendo le maggiori “richieste” a proposito di questa importantissima abilità relazionale e quindi sta emergendo una straordinaria rivalutazione di questa qualità.

Come mai un cambiamento di rotta così improvviso?

Come mai oggi in un colloquio di lavoro o in una attività di recruiting è quasi d’obbligo capire se il candidato “possiede” questa abilità?

Personalmente credo che, per tanti anni, si è voluto correre solo in direzione delle competenze “tecniche”, valorizzando e implementando esclusivamente quelle. Sacrosanto. Ma non bastevole evidentemente...

E l’empatia? Quasi ci si dimenticava. E infatti per prima cosa occorre recuperarne tutto il reale significato…al di là delle semplici definizioni.

Daniel Goleman ci ha fatto riscoprire, in modo disarmante tutto il “potere” che l’empatia ha (o dovrebbe avere) come abilità fondamentale per una Comunicazione realmente efficace… base e pilastro delle tanto osannate (e ricercate) soft skills (di cui parleremo più avanti).

Perché tanta importanza oggi? Beh, siamo costantemente in corsa contro il tempo e l’ansia “da prestazione” sembra “dominare la scena”. Arrivare primi, fare sempre meglio, essere i migliori, essere protagonisti… dominare la scena per raggiungere tutto e subito.

Molto Bello. Ma parecchio difficile da realizzare solamente con le “abilità e competenze tecniche”.

Ed ecco come, nel giro di pochissimi anni, quella che sembrava un’alchimia per pochi, quasi un’abilità magica posseduta esclusivamente per doti e doni naturali, sia diventata un’importante qualità da ricercare, anzi da coltivare…

Si perché la domanda e il dubbio vero è: “ma empatici si nasce o si diventa?”

Ci sono sostenitori dell’una e dell’altra teoria, tutti forti di argomentazioni importanti e di un certo peso. Indubbiamente.

Credo che il buon senso ci possa venire in soccorso.

Ogni individuo così come ognuno di noi, possiede un “corredo genetico emotivo” ben definito dalla nascita, irrobustito e completato soprattutto dalle esperienze che giorno per giorno ci hanno forgiato e caratterizzato. Quello che abbiamo vissuto da un punto di vista emotivo ci ha “segnato”, in famiglia, nella scuola, nei rapporti con i nostri amici, nel mondo del lavoro… abbiamo sviluppato un determinato livello di ascolto, sappiamo comunicare e ci sappiamo relazionare in un certo modo, sappiamo “leggere gli stati d’animo degli altri” secondo certe modalità.

Ma possiamo fare di più? Possiamo allenarci? Possiamo addestrare per esempio i giovani e gli studenti? Prepararli e affinarli da un punto di vista “emotivo”? Visto che viviamo e cresciamo in tempi in cui i momenti (e le occasioni) per vedersi, interagire, stare assieme, confrontarsi, relazionarsi, stanno scarseggiando parecchio?

Ritengo che la risposta debba essere assolutamente si! Se siamo dotati di un buon patrimonio emotivo abbiamo l’obbligo di “potenziarlo” e, per chi non lo è, deve esserci lo stesso identico impegno… Lavorare sull’empatia e addestrarla partendo ad esempio dalle scuole, oltre che rilanciarla nelle famiglie, potrebbe essere una mossa di grande impatto sociale. Ritengo che il solo fatto di parlarne e parlarne tanto, come si sta facendo negli ultimi anni, parlare di tutto il bene che fa (e potrebbe fare) al sistema sociale di una nazione, sia già un passo importante.

Già, perché abituarsi ad ascoltare gli altri, o sintonizzarsi “su di loro”, fermarsi a considerare chi esprime idee e concetti diversi dai nostri, rallentare per “costruire ponti verso gli altri”, sforzarsi di percepire gli stati d’animo di chi studia o lavora con noi, allenarsi a “scegliere” le parole (o le espressioni) più adeguate che non feriscano, e altre qualità simili, mi sembra, possano essere utili soprattutto per cominciare a contrastare fenomeni socio-culturali di estrema criticità, come ad esempio il cyber-bullismo o la violenza nel Web, che spesso vorremmo affrontare solo in forma “coercitiva e negazionista”… senza pensare che, in realtà, c’è un lavoro interiore, personale e spirituale, da proporre e da sostenere… da parte di tutti.

Credo che, pensare di risolvere le cose dicendo che "non si fanno", sia una non soluzione...

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