Epifanie. Da Auschwitz storie di zaini, di vino e di nevi
Uno zaino in spalla è il desiderio di conoscere se stessi e di raggiungere l’Altro.
Il viaggio è comunicazione e, dunque, ponte ermeneutico in grado di unire distanze.
Compito primario del viaggiatore è mettersi in discussione, relativizzare i propri punti di vista, imparare a stringere una mano. La vita da studente fuori sede mi ha molto agevolato in questo compito, offrendomi opportunità e momenti, persone ed errori, emozioni ed affanni.
Necessaria, tuttavia, è stata e rimane la capacità di interiorizzare, fermarsi e riflettere per rendere questi elementi parte integrante della propria identità.
Così quattro amici si sono ritrovati dinanzi ad un calice di nobile chianti classico per rimembrare quel viaggio che ha dato vita alla nostra amicizia e che, per tutti, ha rappresentato un’epifania dello spirito.
Venticinque gennaio duemilacinque.
Treno della Memoria organizzato dalla Regione Toscana per celebrare il 60° anniversario della liberazione di Auschwitz, con tappe intermedie al campo di Birkenau ed al quartiere ebraico della città Cracovia.
Milleduecento studenti toscani.
Oltre mille chilometri in cuccetta.
Ventiquattro ore di viaggio.
Nello zaino la spensieratezza e il disincanto della verde etate, leggiadro, aperto ad accogliere nuovi tessuti.
Eppure bello carico. Due paia di tutto. Volevo preservare la salute corporea, non immaginando minimamente che ad uscirne ristrutturata fosse quella dell’anima.
“Sotto i jeans avevo una tuta di pile, maglietta della salute al primo di quattro strati di maglie, due paia di calzini di lana e anfibi militari”. L’amico Fabrice ricorda ancora la strategia vestiaria adottata per far fronte al freddo. “Anche a rischio di sembrare retorico”, aggiunge Davide “il multistrato di maglie e camicie non ci ha preservato dal gelido tocco di umanità ed orrore, di vita e di morte, di bianco e di nero”.
L’eterna dialettica degli opposti, in effetti, ha trovato in quel tour ampiezza e pienezza di espressione.
Ancestrali diatribe, spesso confinate nel campo dell’immanente e dell’astrazione, assunsero reali sembianze, infilandosi, come coltello nel burro, in luoghi, persone, monumenti ed espressioni.
Ad accoglierci ad Auschwitz c’era la neve. Il contrasto tra l’innocente e candida coltre bianca ed il nero dei cancelli e del campo di concentramento andava al di là della sua natura cromatica. Era soprattutto simbolico.
Minuscoli cristalli di ghiaccio meticolosamente ammassati gli uni sugli altri sembravano giunti lì per coprire l’orrore della sofferenza e della morte. “Un attimo prima eravamo nel museo ad osservare le ciocche di capelli dei deportati accatastate in un’ atmosfera cupa e di ribrezzo, un attimo dopo, uscendo, fiocchi vellutati di purezza ti accarezzavano lentamente il capo”. Le parole di Diana, unica ragazza convenuta alla mini rimpatriata, risuonano in un mix di lucido realismo e accentuata sensibilità.
Anche Davide concorda su tale aspetto “ Io ricordo con particolare impressione, invece, il muro della fucilazione ed i forni crematori con tutti quei lumini dinanzi. Mi si scurì il cuore in quegli attimi. Di contro, ricordo il quartiere di Kazimierz, la sinagoga, il cimitero ebraico ed i tanti locali tutti intorno e che credo possano definirsi luoghi di vita, di cultura e di storia”.
Dar vita ad ingiallite monografie scolastiche, ripercorrendo le tappe di uno dei momenti più aberranti della storia dell’Uomo, e allo stesso tempo incontrare la vivacità della città di Cracovia con le sue luci ed i suoi mercatini e la sua gente accogliente, ci ha dato modo di riflettere sulla contraddittorietà della natura umana. Coscienza che assunse maggior vigore durante la visita al campo di sterminio di Birkenau.
“Quel lungo binario interamente ricoperto di bianco,“ ricorda Davide “ era come un pugno nello stomaco. Nel mentre del cammino che porta all’ingresso del campo, ricordo che mi isolai per alcuni istanti. In realtà ognuno di noi percorse quel tratto in solitaria e in religioso silenzio. Birkenau era spettrale, sembrava un luogo fuori dal tempo. Tutto parlava e invitava alla riflessione silenziosa.”
Le camerate e le latrine agghiaccianti nella loro natura e disposizione, i capannoni in fila indiana e quel filo spinato a separare la vita dalla morte.
Tetro e quasi agghiacciante nel suo presentarsi spoglio e reale, costringendo le oltre mille anime presenti a fare altrettanto. Denudati delle nostre convinzioni, sottratti dei nostri abituali abiti mentali e costretti a guardare negli occhi la nostra indole più profonda di esseri umani. Pensieri, emozioni e paure che si perdevano in quella sterminata distesa dove finanche l’erba faticava a trovare respiro, come ricordato durante il viaggio nella preziosa testimonianza di Andra Bucci, sopravvissuta allo sterminio.
Era quello il silenzio totale della morte infinita. Fisica e spirituale.
Quella che ti aspetti una mattina d’inverno ma che ti affanna l’animo e come una tenaglia ti stringe il cuore. Quella che poi riversi nella solitudine di una buia stanza da letto e nelle umide pagine di un diario.
Quella che ti rimane dentro comunque, nonostante gli anni.
Quella che la candida e leggiadra neve tenta talvolta di cancellare e sovrastare con la delicatezza di chi vuol sancire la supremazia dell’innocenza e dell’amore nel reale.
Il cuore, a ben vedere, si ferma per ultimo.
Nella morte, la vita.
La neve rigeneratrice ci stava esortando a lasciare, dunque, nuove tracce. Forse più candide. Forse più vitali. E quando ormai anche l’ultimo bicchiere di vino volgeva alla fine, ecco la domanda inattesa di Diana, che ci riporta al reale, al pragmatismo quotidiano e al bisogno di rendere concreta questa lezione.
“Ma ora cosa possiamo fare noi, nel concreto, nella vita di tutti i giorni, per evitare che accadano episodi di violenza e che il male assoluto, come è stato l’Olocausto, si presenti nella quotidianità ?”
Ecco. Come spesso accade, la fine è quella più importante.
Bisognava cacciare fuori una risposta. Nelle pieghe di quel quesito si celava il senso più profondo del nostro viaggio. Ma il consenso, per altro totale, non tardò a fuoriuscire.
Quella domanda trova senso in quel bicchiere di vino condiviso per riflettere su di un percorso comune.
Trova senso nel legame creato nove anni fa, tenuto in vita ed alimentato negli anni.
Trova senso nelle vigorose strette di mano che da allora accompagnano i nostri incontri.
Trova senso nel miracolo di condivisione che solo una peregrinatio profonda può garantire.
Trova senso nell’essere hic et nunc sentinelle della Memoria.
Trova senso nel capitale umano e sociale che si è riuscito a creare e che ancora oggi è la base di una comunità in grado di rifiutare il male supremo ed impedire che si ripresenti finanche sotto mentite spoglie.
Con gli occhi dell’eterno sognatore e l’animo del “fanciullino che non solo ha brividi ma lagrime ancora e tripudi suoi”, mi piace pensare che questo sia stato il regalo più grande che la visita ai campi di sterminio ci abbia concesso. Cancellare il passare del tempo e divenire finalmente fonti di vita e di rispetto, sicuri che “solo il bene ha profondità e può essere radicale”.
Quello zaino sembrava ora essere più pesante.
La spensieratezza e il disincanto della partenza ritornarono a Firenze con l’aggiunta di maggiore umanità e la consapevolezza che, nella quotidianità e nell’assunzione delle proprie responsabilità giornaliere risieda la formula per cambiare la propria Storia e, forse, anche ciò che ci circonda.
Quello zaino divenne così pronto alle sfide del mondo globale. E ad altri e memorabili viaggi.
simone grasso
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