Gian Maria Volontè l’illustre camaleonte del cinema italiano
Il 9 aprile 1933 nasceva Gian Maria Volonté, quello che in un mio recente saggio ho definito l’illustre camaleonte del cinema italiano (postfazione al libro “Il ventennio d'oro del cinema italiano - Quattro lustri di illustri” di AA.VV., 2021, Graus Edizioni, appena uscito nelle librerie).
Forse il più grande attore del nostro cinema e purtroppo uno dei più tristemente dimenticati, un attore cosi magistrale da riuscire ad interpretare due volte lo stesso ruolo, quello di Aldo Moro, in due film, (“Todo modo” del 1976 e “Il caso Moro” del 1986), per due registi diversi, ed a restituire due maschere completamente differenti fra loro eppure perfettamente credibili ed aderenti all’originale. Un attore dallo smisurato talento e capacità mimetica che, come giustamente disse il regista Francesco Rosi, “rubava l'anima ai suoi personaggi”.
Voglio ricordarlo, oggi che avrebbe compiuto 88 anni, con le sue stesse parole, quando in un’intervista rispose in merito a cosa significasse per lui fare l’attore:
«Io accetto un film o non lo accetto in funzione della mia concezione del cinema. E non si tratta qui di dare una definizione del cinema politico, cui non credo, perché ogni film, ogni spettacolo, è generalmente politico. Il cinema apolitico è un’invenzione dei cattivi giornalisti. Io cerco di fare film che dicano qualcosa sui meccanismi di una società come la nostra, che rispondano a una certa ricerca di un brandello di verità. Per me c’è la necessità di intendere il cinema come un mezzo di comunicazione di massa, così come il teatro, la televisione. Essere un attore è una questione di scelta che si pone innanzitutto a livello esistenziale: o si esprimono le strutture conservatrici della società e ci si accontenta di essere un robot nelle mani del potere, oppure ci si rivolge verso le componenti progressive di questa società per tentare di stabilire un rapporto rivoluzionario fra l’arte e la vita».