Hic sunt Dracones

Hic sunt Dracones

Il sergente maggiore Scorteccia era perplesso mentre le sue rocciose convinzioni si stavano sgretolando sotto i colpi di un nemico sfuggente e incomprensibile.

Ormai da cinque minuti stava fermo, in piedi, esposto ai raggi di un sole implacabile, proprio davanti alla colonna di blindati, trasporti e veicoli speciali.

Potevamo scorgere la cicatrice biancastra che attraversava il suo testone calvo e bitorzoluto.

Se ne rimaneva là a borbottare tra sé, rigirando con cautela uno degli oggetti disseminati lungo la strada.

Una mina di nuova concezione? Un diffusore di gas letale o, peggio ancora, di virus con un ugello a forma di testa d’anatra?

Difficile a dirsi, ma decine, se non centinaia, d’oggetti simili giacevano abbandonati su quella pista polverosa; alcuni, ammucchiati in immonde pire funerarie, rilasciavano un fumo denso ed oleoso in grado di ostacolare la nostra marcia.

In preda alla sensazione d’essere perduti nel nulla, noi reclute restavamo all’interno dei veicoli, mentre la temperatura si faceva insopportabile nonostante l’aria condizionata.

Ci sentivamo, ecco, vulnerabili, come quando ci si addentra in un terreno inesplorato.

Neanche tre ore prima il sergente maggiore ci aveva “amabilmente” ricordato, con la sua “vocina da orco”, che eravamo dei professionisti e dovevamo portare a termine la missione seguendo il manuale delle procedure alla lettera.

Altro che esotiche spiagge, i sandali ai piedi, un paio di bermuda e una camicia a fiori: ci attendevano pesanti tute stagne e maschere con autorespiratore pronte da indossare.

Il sergente maggiore depose finalmente l’oggetto misterioso che aveva destato le sue preoccupazioni – definitivamente una sorta di salvagente per bambini – e fece cenno di avanzare “al passo”: avrebbe preceduto a piedi la colonna, guidandoci attraverso gli ostacoli disseminati lungo la strada.

- Evviva il sergente maggiore Scorteccia! -

E, vi giuro, nessuno di noi si sarebbe certo sognato di storpiare il suo nome in “Scorreggia”, come venne poi erroneamente riportato nelle cronache dei giornali: in quell’istante era il nostro eroe, è solo che la Storia, ogni tanto, si diverte a giocare strani scherzi.

Sta di fatto che i cosiddetti “strateghi” non avevano previsto l’enorme ingorgo stradale attorno al centro di raccolta designato, né che qualche “partigiano” si sarebbe divertito a sabotare tutti i cartelli stradali, portando i convogli a perdersi lungo tratturi di campagna.

Qui, con cumuli di materiale di scarto d’ogni genere, disposti ad arte e incendiati, le colonne erano state bloccate.

Via, via i trasporti ed i veicoli compattatori avevano esaurito il carburante e ai militari non era restato che spingerli fuori strada con i loro blindati.

Persino la nostra missione di bonifica dei siti contaminati, sembrava irrimediabilmente compromessa, in questa landa aliena, sotto un cielo color limone pallido.

- Sergente maggiore, guardi!

Il canale artificiale che fiancheggiava la strada era disseminato di carcasse, zampe rigide e pance gonfie; oltre la riva scheletriche capre ci osservavano quasi stupite, masticando la poca erba rimasta.

Brucavano stolide, all’ombra di container rugginosi che emergevano dai campi coltivati e ci sembravano antichi relitti d’astronave, ancora percolanti mefitiche sostanze aliene.

Più in là, una piccola casa colonica e un’indistinta sagoma umanoide che avanzava trai fumi acri e nauseabondi.

- Fermi con le armi: è solo un bambino!

Il sergente cercò di mostrare la sua espressione più rassicurante - un compito quasi impossibile - ma evidentemente lo “scugnizzo” ne aveva visti parecchi di brutti musi nella sua vita.

Solo al termine di dieci, eterni, minuti d’animato colloquio, ricevemmo l’atteso ordine.

- Vabbé, a questo punto un posto vale l’altro: iniziamo le operazioni di bonifica!

Nell’area prescelta le ruspe presero a rimuovere lo strato superficiale di terreno per collocarlo in sarcofagi sigillati; i veicoli per la decontaminazione sparsero sostanze studiate per rendere inattive le molecole tossiche attraverso processi di riduzione, ossidazione e sostituzione nucleofila.

Poi bidoni e container vennero rimossi e caricati sui trasporti speciali.

Dovevamo valutare, oltre che l’entità della contaminazione anche la futura destinazione del sito: la presenza del piccolo rustico colonico dove abitava la famiglia di quel bimbo richiedeva la decontaminazione più radicale.

Trasportammo con cautela un cassone – il terribile simbolo di pericolo biologico stampigliato sul fianco - e liberammo sui campi la nostra arma segreta: gli oligocheti.

Insomma lombrichi comuni, perché era proprio grazie ai piccoli e viscidi esseri, in grado di fagocitare il terreno e assorbire nella loro parte grassa la diossina presente, che iniziava la rinascita di questa martoriata regione.

Sullo schermo del navigatore satellitare l’area dove – verosimilmente - ci trovavamo era stranamente priva di indicazioni, o meglio, nulla del mondo reale corrispondeva ai simboli convenzionali riportati: era l’equivalente dello spazio bianco sulle antiche mappe quando interi continenti ed oceani erano ancora tutti da esplorare.

“Hic sunt dracones” era la dicitura riportata dai cartografi del tempo – Qui vivono i draghi - e forse questo era il segno più indicativo del futuro che ci attendeva.

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