I rischi della scuola 2.0
Fine settembre. La scuola è già cominciata da qualche settimana con i suoi rituali, le sue eterne polemiche, il suo immenso carico simbolico. Ognuno di noi serba un ricordo dei primi giorni di scuola. Per alcuni dolce e tenero, per altri amaro e angosciante. La scuola resta - nonostante i continui tentativi di riforma - uno dei luoghi più contraddittori dell’esperienza sociale.
Riflettere sulla scuola significa ancora voler approfondire le contraddizioni sociali, economiche, morali del nostro Paese.
Potrebbe essere utile leggere in questo nuovo inizio dell’anno scolastico le riflessioni contenute nel libro di Adolfo Scotto di Luzio, Senza Educazione. I rischi della scuola 2.0, Il Mulino 2015.
L’autore sostiene che «crescere, significa sviluppare naturalmente dentro di sé problemi di natura morale e intellettuale che solo un adulto colto e appassionato è in grado di accogliere. Un maestro è veramente tale quando fornisce alla vita nuova dei suoi allievi gli strumenti intellettuali per portare quei problemi nella luce di un’espressione chiara e pienamente consapevole» (p. 11). Ma quali sono questi strumenti intellettuali nella scuola del sistema tecnico?
L’idea “madre” che muove l’intero impianto educativo sembra essere questa: i saperi necessari alla educazione del futuro devono passare obbligatoriamente dagli strumenti tecnologici più avanzati e il loro utilizzo fa parte delle competenze indispensabili nel bagaglio culturale del cittadino che la scuola forma.
Per realizzare questi propositi è necessario un ingente investimento tecnologico dello Stato (che può anche farsi aiutare da aziende private) per fornire le scuole di ogni ordine e grado dell’attrezzatura tecnica che permetta connessione e connettività alla Rete.
Scotto di Luzio si “oppone” a questa corrente impetuosa sostenendo che: «in una scuola in cui i fondamenti dell’istruzione non sono ben garantiti, l’introduzione delle tecnologie […] diventa un peso che porta via risorse ed altre cose ben più importanti. Ad esempio la formazione degli insegnanti e il finanziamento dei programmi per il potenziamento dell’italiano, della matematica e delle scienze. Può apparire un paradosso, ma la nuova competizione per la spesa scolastica colpisce l’insegnamento scientifico più di altri. I computer portano via risorse soprattutto alla dotazione non high-tech dei laboratori degli istituti tecnici e dei licei» (p. 43).
Nei processi d’apprendimento la tecnologia non riduce le disuguaglianze (p. 44) è altamente «incerta e dispendiosa» (p. 45) e drena enormi risorse. Inoltre, sembra non incidere significativamente sulla riduzione delle disparità sociali (p. 51): «la tecnologia si mostra incapace di sottrarre la scuola al problema che l’istruzione fronteggia da sempre in una società democratica e cioè la tensione tra spazio educativo e spazio sociale, tra pedagogia e conflitto nella società, ma di fatto serve a ribadire, in alcuni, il proprio privilegio, negli altri la propria sconfitta» (p. 52).
Le posizioni di Scotto di Luzio si possono così brevemente riassumere: la scuola è tenuta a insegnare ma la qualità dell’insegnamento dipende innanzitutto dalla qualità degli insegnanti che, quando sono ben formati e ben pagati, sono in grado di raggiungere ottimi obiettivi didattici anche senza l’utilizzo massivo delle nuove tecnologie.
Tuttavia, questi investimenti sembrano raggiungere solo alcune scuole più “avanzate” mentre altre rimangono indietro. Questo divario, riproduce l’iniquità già presente nella società e non permette il suo superamento almeno nelle condizioni di base dell’insegnamento che, in una scuola pubblica, dovrebbero essere garantite per tutti senza distinzioni di ceto di appartenenza.
La tecnologia si fa strada nella istruzione con una «forte pretesa alla docilità dei suoi utenti» (p. 78) e l’intero processo d’istruzione sembra essere plasmato in vista di una occupazione futura, con il predominio della «subordinazione salariale» (p. 79). La tecnologia come disciplina mira direttamente a «riscrivere le esigenze interiori e la struttura dei motivi personali» (p. 79) premiando in termini di risultati la disciplina, l’obbedienza e la forte motivazione (p. 115).
Agli studenti la tecnologia chiede una sostanziale disponibilità alla innovazione continua e infinita. La scuola dunque come impianto disciplinare, finalizzato alla docilità sostanziale del futuro funzionario del sistema tecnico e luogo di riproduzione dell’iniquità sociale. Il panorama non è certo confortante.
Possiamo collocare questo volume in un orizzonte critico nei confronti dell’inserimento delle nuove tecnologie in ogni ambito della vita che sembra non essere facilmente attratto dalla grande seduzione del Web 2.0 che aveva promesso: «di portare più verità a un maggior numero di persone: più profondità d’informazione, una prospettiva più globale, opinioni più eque da parte di osservatori imparziali» (A. Keen, Dilettanti.com. Come la rivoluzione del web 2.0 sta uccidendo la nostra cultura e distruggendo la nostra economia, De Agostini, Novara 2009, p. 36) e che invece, ha reso la realtà ancora più complessa e difficile da interpretare, spesso oscurandola dietro una spessa cortina di fumo.
Sono tante le voci fuori dal coro che cercano di mettere in guardia da un uso inconsapevole, frettoloso e manipolato da interessi economici delle nuove tecnologie. Tuttavia, sembra sia l’atteggiamento acritico e passivo ad avere la meglio.
Ai nostri giovani che hanno ripreso a frequentare la scuola non si può fare altro che augurare d'incontrare insegnanti preparati che possano trasmettergli innanzitutto l’amore per la saggezza e il rispetto per la vita.
Se questo avverrà anche grazie ad un Tablet o a una lavagna elettronica, potremmo anche smettere di preoccuparci.
Fino ad allora però, sarà necessario mantenere uno sguardo vigile per evitare che la scuola diventi l’ennesimo centro commerciale dove pochi marchi impongono nuovi e luccicanti strumenti di alienazione.