I russi, vittime della sindrome di Stoccolma
Natalia Rezontova e Irina Slavina sono solo le ultime - le ennesime - manifestanti arrestate nei giorni scorsi in Russia per aver protestato contro la guerra. La loro colpa: aver deposto un fiore. Aver alzato un cartello.
Insieme a Natalia c’era anche un ragazzino, minorenne, anche lui trasportato al Dipartimento di Polizia N. 5. È successo a Nizhny Novgorod nel giorno in cui ovunque nel mondo cortei di manifestanti sfilavano nelle piazze per dire basta alle bombe.
La voce che si alza dalla Russia è flebile, lo sappiamo, ma non si spegne. Gesti di coraggio come questi vengono registrati ogni giorno dalle ong che si occupano dei diritti umani.
Secondo il gruppo indipendente OVD-Info, dal 24 febbraio dell’anno scorso le detenzioni per azioni di protesta contro la guerra e la mobilitazione in Russia sono state 19.586. Quasi la metà dei manifestanti finiti in manette (46%) sono donne. E alcune di loro, denuncia OVD-Info, hanno subito violenze sessuali e maltrattamenti.
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Se anche i fiori fanno paura
L’equazione è semplice: l’Occidente ci ha messo un po’ a capirlo, ma se in Russia si protesta poco o niente, è per paura. Quando basta un fiore per farti finire dietro le sbarre, quando la delazione entra nelle scuole, la paura assume i contorni del silenzio, e il silenzio diventa sottomissione.
Così come spiega in un interessante articolo Andrej Kolesnikov, senior fellow al Carnegie Endowment for International Peace, la sottomissione del popolo russo alla propria leadership politica “affonda le radici nella paura, nel trauma generazionale e nell’estrema dipendenza socio-economica dallo Stato”.
All’inizio dell’invasione russa, nel mondo occidentale ci si stupiva - anzi, ci si indignava - del fatto che nel Paese aggressore la gente non scendesse in massa nelle piazze a protestare, dimenticando che per generazioni i russi si sono ritrovati a fare i conti con un dilagante sentimento di paura: paura verso il potere, diffidenza verso chiunque...