Il corpo è un mero oggetto fisico?
I sociologi, colpevolmente, non hanno mai dato grande risalto al corpo come occasione di riflessione disciplinare specifica. Per decenni si è pensato, sbagliando, che una certa categoria di tematiche fosse pertinenza esclusiva di altre discipline, di altri approcci scientifici, sottostimando in realtà le connessioni importantissime che le stesse potevano avere con aspetti centrali per la Sociologia, quali relazioni sociali e comportamenti collettivi solo per citarne alcuni. Sinteticamente, per comprendere l’approccio, tutto quello che riguarda la salute – e conseguentemente quindi ogni riflessione inerente appunto il corpo – è sempre stato ritenuto appannaggio esclusivo delle scienze biomediche, almeno fino a quando la stessa OMS non ha chiarito che l’essere in salute comporta un completo benessere dal punto di vista bio-psico-sociale.
Quasi ci fosse bisogno di una legittimazione in tal senso, da allora sono quindi cominciati i primi, timidi approcci. Storicamente, possiamo far risalire alla metà del secolo scorso le prime riflessioni sociologiche sul tema dalla salute e della malattia. Anzi, per essere precisi, solo della salute e da un particolare punto di vista: è consuetudine individuare nel “Sistema sociale” di Talcott Parsons, pubblicato nel 1951, l’occasione per una prima riflessione sociologica sistematica sulla sanità. L’analisi parsonsiana insiste però quasi esclusivamente sulle dimensioni normative del rapporto fra il medico e il paziente, lasciando peraltro in ombra aspetti centrali quali quello del potere, della sua asimmetria, per non dire, ovviamente, di quello del vissuto della malattia e certamente anche di quello della corporeità dei pazienti. Per registrare l’ingresso del tema del corpo fra quelli di interesse sociologico bisogna attendere una trentina d’anni; e curiosamente, il corpo diventa oggetto d’interesse più per aspetti che caratterizzano negativamente l’evolversi della situazione piuttosto che come aspetto interessante di per sé. In questa prospettiva, insomma, la maggiore attenzione della sociologia potrebbe essere vista come il corollario di una maggiore visibilità sociale del corpo legata alla sua crescente problematicità. Pur con alcuni distinguo, le principali ragioni possono essere raggruppate in quattro grandi categorie di motivazioni:
a) la crisi dei modelli di genere sessuale, collegata anche alle trasformazioni della famiglia e dei ruoli sessuali;
b) l’impatto del femminismo, che modifica l’assetto generale dei corpi, impone nuove rappresentazioni, proietta sulla scena sociale nuovi soggetti forti che rivendicano la dimensione della corporeità e ne storicizzano le forme tradizionali;
c) le trasformazioni demografiche e antropometriche. L’invecchiamento della popolazione, i nuovi assetti intergenerazionali, le modifiche della struttura fisica dei corpi investono il corpo stesso, includendo le gestioni e rappresentazioni della malattia e della decadenza fisica, i livelli della medicalizzazione, la sua accessibilità all’intervento umano. Pensiamo per esempio ai trapianti, alla inseminazione artificiale, alla chirurgia estetica, fino all’intervento sui suoi processi fisiologici e neurofisiologici, situazioni dalle quali il corpo esce socialmente sovradeterminato.
d) le logiche del cosiddetto postmoderno con il passaggio dal modello della gratificazione posticipata a quello della gratificazione immediata, l’accento crescente sul corpo consumatore rispetto al corpo produttore, la cultura del narcisismo e le sue conseguenze sulla rappresentazione corporea del sé, il dilagare dell’uso delle immagini nella comunicazione online.
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Sia pur in qualche modo quasi per caso – e comunque colpevolmente in ritardo – il corpo oggi è oggetto d’interesse per la sociologia a tutti gli effetti: perché anche se non esiste ancora di per sé una sociologia del corpo autonoma, oggi il corpo anche in seguito ai nuovi canoni dell’estetica, dell’avvento delle tecnologie e delle trasformazioni chirurgiche sempre più diffuse, assume per le scienze sociali un terreno fertile da approfondire. Studiare il corpo significa infatti guardare ben oltre il corpo stesso, la sua materialità fisica, per puntare invece alla sua percezione in contesti socioculturali differenti e al suo ruolo da un punto di vista prettamente relazionale.
Il percorso di avvicinamento alla considerazione dell’importanza di considerare il corpo come “oggetto sociale” rilevante è stato lungo e tortuoso.
Alcuni dei fondatori stessi della sociologia - Durkheim, ma anche Simmel, e poi Goffman e Bourdieu, Le Breton – hanno ragionato in qualche modo sul tema, sia pure in modo settoriale. Durkheim, per esempio, da buon funzionalista, sosteneva che gli individui hanno un “corpo mondano e un’anima spirituale”: in altri termini, le persone vivono quindi una tensione tra il loro essere e la vita sociale. Bourdieu, dal suo canto, si riferisce alla costruzione sociale dei corpi come a quel percorso che ciascun individuo nella sua prospettiva fin dalla nascita acquisisce e intraprende, attraverso modelli di pensiero che sono incorporati nel mondo in cui lui stesso agisce e vive quotidianamente. Goffman invece offre un interessante contributo in relazione al corpo soprattutto nella lettura dello stigma in riferimento ai disabili. A suo avviso, chi non presenta particolari difetti fisici o disabilità, è spinto ad attivare alcuni comportamenti anche di aiuto che non sono utili alla persona e che invece crede siano necessari per chi presenta alcuni difetti fisici. Si creano alcuni comportamenti quindi che entrano a far parte dei modelli culturali a seconda di luoghi e abitudini. La sua analisi diventa al tempo stesso interessante quando affrontando le istituzioni totali in Asylums, si concentra sulle prove a cui il corpo degli internati viene sottoposto e sulla mortificazione del sé che l’istituzione totale concorre a provocare. Tra i contemporanei David Le Breton, certamente uno dei pionieri degli studi sul corpo, lo analizza finalmente anche in rapporto all’identità e soprattutto facendo riferimento alla pelle e al suo colore: il che, naturalmente, apre ulteriori questioni importanti relative tanto alla provenienza geografica, quanto all’integrazione e alla complessità dei legami sociali.
Il nostro corpo, insomma, è lungi dall’essere un mero corpo fisico. È in realtà una sorta di nostra carta d’identità socioculturale, un mezzo che utilizziamo per comunicare e raccontare di noi stessi al mondo. Conformandoci alle mode o dissociandocene, utilizziamo comunque il nostro corpo come strumento identitario, al fine di far parte – o di evitare – una precisa appartenenza. Ne è convinta anche Nancy Krieger, epidemiologa statunitense, autrice di un saggio intitolato Embodying inequality (incarnare/incorporare la diseguaglianza), nel quale sostiene appunto che i corpi raccontano le storie delle condizioni della nostra esistenza, e come tali sono storie che devono essere ascoltate, anche perchè le storie raccontate dai corpi possono non corrispondere perfettamente alle dichiarazioni di una persona. Non solo: i corpi rivelano storie che le persone potrebbero, per le ragioni più disparate, non essere in grado di raccontare. Perché, come sostiene anche Richard Norton, direttore della prestigiosa rivista medica Lancet, è proprio il corpo umano a subire gli effetti più duri della catastrofe sociale causata da un insieme tossico di guerra e inettitudine governativa. La nostra pelle è la tela su cui viene inciso il fallimento politico, diventando in questo modo l’espressione materiale della violenza del mondo sociale.
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I meccanismi e le forme di controllo del corpo diventano strumenti con i quali rispondere ai dilemmi identitari caratteristici della modernità: disciplinare il corpo significa dirottare su di esso tutte le energie, non solo fisiche, ma soprattutto psicologico/esistenziali, appiattendo sul perseguimento dell’apparenza esteriore, la ricerca del riconoscimento e dell’accettazione principalmente da sé, oltre naturalmente che da parte degli altri. Il nostro è un tempo di accelerazione continua in cui il corpo risulta pienamente coinvolto. Byung-Chul Han ha mostrato i contorni che assume la nostra società, allorquando i singoli mirano unicamente al conseguimento di una soddisfazione narcisistica e alla ricerca del consenso: fanno parte di una società cosiddetta della prestazione, che segna un cambiamento di paradigma e finisce per essere palliativa e illusoria. La pressione della prestazione genera soggetti frustrati e depressi che tentano di bandire la sofferenza dalle proprie vite e rifuggono da paure e delusioni che possono scaturire dal confronto con la realtà in modo naturale. Siamo di fronte alla valorizzazione del corpo e del fitness, nella quale il narcisista sembra essere cieco quando si tratta di riconoscere gli altri, eppure necessita di loro perché da essi dipende la sua autostima. Sul corpo allora si concentrano tutta una serie di attenzioni, da quelle alimentari alla forma derivante da attività fisica. Per entrambe le cose, in casi particolari, esiste una sorta di patologia: ortoressia nervosa e vigoressia sono disturbi ben noti dagli specialisti. L’incrocio fra queste due tendenze, alimentare e di attività, che derivano dalla ricerca del consenso nella società della prestazione, come ho discusso molte volte nelle mie ricerche, diventa pericoloso: è quello che ho chiamato “ortoressia sociale”, a caratterizzare l’influsso culturale che la dirige e la pre-determina. È evidente che mettere insieme il corpo e l’alimentazione può provocare una specie di sovra-comportamento che incide nella gran parte delle attività quotidiane, finendo per essere rilevante in moltissime situazioni, dall’organizzazione della vita quotidiana alle relazioni sociali. Il quadro di fondo è proprio questo: vi sono alcuni comportamenti che necessitano di attenzione particolare, prima di diventare potenzialmente pericolosi. Ora, i comportamenti legati al fisico sono facilmente leggibili. Chi svolge un costante allenamento fisico entra in una spirale di dipendenza unitamente alla necessità di combinare una dieta equilibrata in grado di garantire risultati apprezzabili a lungo termine. Anche chi adotta comportamenti di estrema (ed esagerata) attenzione a quello che ingerisce in fondo è facilmente individuabile. Molte delle mie ricerche tendono ad evidenziare grandi aree di sovrapposizione nelle due famiglie di ortoressici nervosi e vigoressici; le due cose, insomma, farebbero parte di un unico, grande comportamento collettivo che spinge moltissima gente ad assumere comportamenti socialmente desiderati, con lo scopo di uniformarsi a un ideale di bellezza e corpo da poter esibire/vendere nel mercato dei social oltre che nella vita di relazioni in presenza, e che persegue il mantra dell’apparire, spesso contrapposto a quello dell’essere.