Il fenomeno degli imprenditori del food diventati influencer
LA COMUNICAZIONE DI IMPRESA COM'ERA E COM'È. IL FENOMENO DEGLI IMPRENDITORI DEL FOOD DIVENTATI INFLUENCER: PRO E CONTRO, RISCHI E PERICOLI, DELL' ESASPERAZIONE DEI VIDEO-RACCONTI.
Sono sempre stato affascinato da tutte le attività svolte nei reparti produzione delle aziende. Il racconto fatto bene di come nasce un prodotto è qualcosa di magico. Sono stato in aziende di tutti i tipi, di ogni settore: aziende metalmeccaniche, manufatturiere, e poi sartorie, cantine, frantoi, torrefazioni di caffè (ovviamente), caseifici, laminazioni, ceramiche... ognuna di queste mi ha affascinato per svariati motivi.
Un tempo non molto lontano questa prassi di raccontare le aziende, ma soprattutto i prodotti, dall'interno dell'area produzione, era impensabile: vigeva "il segreto di produzione" anche in aziende che di segreto non avevano proprio nulla. Era più che altro uno stupido timore dell'imprenditore medio di poter essere "copiato". Come se tutti producessero la Nutella o la Cocacola. Se intercettate qualcuna delle mie prime interviste parlo proprio di come aprire le porte della produzione nei primi anni 2000 e mostrare a tutti, in rete, come si produce il caffè sia stato uno dei passaggi chiave del nostro "successo" nell' #ecommerce.
Oggi questo racconto è diventato strategico ma tanti comunicatori improvvisati, e tante agenzie di comunicazione che si limitano ad eseguire bene il compitino, lo esasperano.
Da qualche anno - ormai l'avrete capito - sono attratto ancor di più dalle cucine e dai laboratori di pasticceria. Osservandoli con più attenzione e da più vicino, direi che questo è il settore in cui l'esasperazione di questa forma di comunicazione sta creando i maggiori equivoci. Equivoci che, se non si fa attenzione, per alcuni che ne stanno giovando nel breve termine, potrebbero diventare danni.
Per me è stupendo vedere e sapere come nasce un prodotto o un piatto. Mi interessa tutto: la preparazione dell'autore, l'estro, le origini degli ingredienti, la scelta degli abbinamenti, tutto.
Tutto, tranne come si consuma.
Occorrerebbe procedere per step: presentazione del brand, del concept del format, presentazione dell'imprenditore, racconto della sua esperienza e della sua visione, presentazione del prodotto; tutto fatto anche in maniera seriale per ogni prodotto, ma fermarsi alle presentazioni per poi lasciare agli utenti la curiosità del consumo, della prova, l'esperienza dell'assaggio.
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Ecco, la presentazione del prodotto credo sia il limite da non superare.
Invece quelli che negli ultimi tempi sono diventati fenomeni mediatici hanno varcato quella soglia: sono passati alla dimostrazione di come si consuma il proprio prodotto. Mangiare a sbafo pare ormai essere diventato il mantra della comunicazione legata ad un certo tipo di aziende del food, soprattutto quelle di somministrazione se si considerano come interpreti i diretti interessati, ma non solo se si va oltre pensando ai food blogger e agli influencer ingaggiati appositamente da aziende di produzione alimentare per mostrare "come si mangia" il proprio prodotto.
Se, da un lato, di buono c'è che non si tratta più di quel banale storytelling diventato ormai monotono, e che si intravede una forma di pura #comunicazione aziendale incentrata sulla produzione come leva attrattiva; dall'altro lato l'imprenditore, l'artigiano, il pizzaiolo, lo chef, il pasticciere, uomini e donne di impresa che la raccontano, diventano protagonisti più del loro oggetto di impresa. Ecco l'esasperazione, il troppo che storpia.
Probabilmente - anzi direi sicuramente - questo tipo di contenuti (video) portano risultati in termini di visualizzazioni e numeri da capogiro in termini di impression dei singoli post, di conseguenza un aumento dello share; ma in termini aziendali cosa producono in termini di corporate branding?
C'è da distinguere, a mio avviso, tra una duplice conseguenza - una positiva e una negativa - che queste dinamiche di comunicazione innescano. La prima - positiva - si ha quando la strategia è ben studiata e resta fedele allo scopo: l'azienda ne giova in termini di brand awarness e l'imprenditore si posiziona come riferimento del settore di appartenenza; in alcuni casi riuscendo anche, successivamente, a sfruttare le sue capacità manageriali e la sua preparazione attraverso consulenze e formazione. La seconda - negativa - si ha quando l'imprenditore diventa egli stesso un banale "influencer", tanto da essere ingaggiato anche da aziende competitor per promuovere non più il suo prodotto ma quello appunto dei competitor. In questo caso, probabilmente, qualcosa nell'attuazione di questo modello comunicativo è stata sbagliata o, quantomeno, occorre avere consapevolezza che ha generato dinamiche contorte.
In definitiva credo che la comunicazione aziendale attraverso i social network, a partire dalle grandi aziende fino ai piccoli esercizi di vicinato, negli ultimi anni abbia fatto enormi progressi. L' auspicio è quello che i professionisti prendano però sempre più consapevolezza delle sue funzioni, che sappiano riconoscere il confine oltre il quale l'esposizione diventa controproducente.
Il rischio, altrimenti, è che oltre a chef, pizzaioli e pasticcieri che mangiano a sbafo i propri prodotti, possiamo ritrovarci domani, sulla time line dei nostri canali social, anche idraulici o produttori di sanitari a varcare la linea di confine, andare oltre i tutorial di costruzione e montaggio, e darci dimostrazione di come espletare i nostri bisogni.