Il futuro delle professioni è nell'aggregazione. Una conversazione con Claudio Rorato.

Il futuro delle professioni è nell'aggregazione. Una conversazione con Claudio Rorato.

Alla fine del convegno, in cui sono stati presentati i dati dell’ultimo Rapporto sulle libere professioni in Italia (puoi scaricarlo qui), abbiamo chiesto a Claudio Rorato, responsabile scientifico e direttore dell’Osservatorio professionisti e innovazione digitale del Politecnico di Milano e relatore dell’ultima tavola rotonda (trovi il suo intervento qui) di approfondire alcuni aspetti delle professioni che possano aiutarci a capire come sta cambiando il comparto, quali attori ci sono in gioco e quali strade intraprendere per rimanere competitivo sul mercato.


D: Dalla nostra chiacchierata sono emersi tre elementi chiave: l’aggregazione la formazione e la gestione dei giovani, la capacità di sviluppare nuovi prodotti e servizi.

R: Il tema dell’aggregazione è centrale. Oltre a garantire una maggiore capacità di rispondere alle esigenze del cliente e quindi del mercato, l’aggregazione consente alle microstrutture, ma anche a quelle più grandi (a seconda degli obiettivi strategici) di irrobustire la struttura, che si traduce in maggiore capacità di fare investimenti, per esempio in tecnologie innovative, di ampliare l’ampiezza e la profondità della gamma dei servizi anche grazie a nuove abilità acquisite, di rivolgersi a nuovi segmenti di clientela, perché il know-how disponibile è superiore, di fidelizzare maggiormente i clienti in portafoglio con un’offerta in grado di soddisfare bisogni di più aree aziendali.

D: L’aggregazione in sostanza aiuta il professionista a uscire fuori dalla trappola della quotidianità e sviluppare un orizzonte di evoluzione.

R: Ci sono però almeno tre elementi che frenano il processo aggregativo: fiscale, gestionale e comportamentale e attitudinale. Il primo coinvolge la tassazione a cui sono soggette le operazioni di acquisizione e la contribuzione previdenziale. Il secondo riguarda le difficoltà operative che nascono fin dalla costituzione, soprattutto per le stapa, che creano dei vincoli, figli più che altro di retaggi culturali anche anacronistici. Il terzo risiede sfera individuale: spesso il professionista delle realtà più piccole, nonostante le caratteristiche dello studio consiglierebbero il r aggregativo, è timoroso a condividere con altri la propria potestà.

Da tutto ciò derivano delle necessità giuridiche, culturali e formative. Le prime riguardano il riconoscimento dello status di azienda anche agli studi – come già avviene in diversi stati esteri – e la semplificazione normativa sottostante alle aggregazioni, che renda effettivamente conveniente e incoraggi l’aggregazione. Le seconde fanno riferimento a una revisione dei paradigmi culturali che, oggi, creano dei vincoli all’esercizio della professione, che opera in un mercato che ha mutato le sue condizioni. Mi riferisco, per esempio, alle restrizioni sull’attività di comunicazione/promozione, all’impossibilità di fatto di disporre di una rete di vendita per i servizi. Per lo meno è auspicabile l’apertura di tavoli di confronto su questi temi per cercare di trovare soluzioni in grado di permettere agli studi di avere modelli di riferimento più adeguati alla realtà circostante. Infine, le necessità formative. Aggregarsi non è facile, perché occorre compiere una serie di passi: tra cui un esame approfondito di sé stessi – sia come studio sia come individui – la scelta dei compagni di viaggio, la definizione delle regole gestionali e così via. Occorre insegnare come compiere questi passi, quali finalità poter cogliere e come gestire le criticità che potrebbero manifestarsi sul percorso.

D: I tre assi, giuridico, culturale e comportamentale incidono in qualche modo sulla scarsa attrattività che le professioni hanno sui giovani.

R: La microstruttura, in realtà, ha un difetto congenito: dare poco spazio per le opportunità di crescita. Ancora una volta la quotidianità soffoca la capacità di programmazione e di elaborazione di nuove visioni per il futuro. Difficilmente nei piccoli studi ci sono dei programmi di crescita strutturati per una nuova risorsa. Parliamo, ovviamente, di crescita sia in termini di contenuti sia di ruolo. I giovani oggi, prima dello stipendio, chiedono che tipo di formazione possono avere per ottenere autonomie e responsabilità crescenti, quali obiettivi raggiungeranno nei prossimi due anni, quale sarà il loro ruolo all’interno dell’organizzazione negli anni a venire, quali dei temi (in cui loro sono nativamente immersi – digitale, sostenibilità, gender gap) lo studio affronta e soprattutto se esiste un bilanciamento tra vita privata e lavorativa.

D: Non porre rimedio a questa necessità, non capire che i paradigmi stanno cambiando, vuol dire mettere in mano ai giovani il problema.

R: Le persone più esperte, in questo caso i professionisti, hanno il dovere di adattare il loro linguaggio ai giovani, non il contrario. Devono capire i loro bisogni, interpretare i loro desideri per poterli attrarre. E in questo l’aggregazione aiuta, perché dalla crescita dimensionale, vista nelle sue diverse implicazioni già citate, deriva anche la possibilità di migliorare la programmazione.

D: La tecnologia può venire in soccorso, ma servono alcune abilità prima...

R: Esistono due abilità: una è la capacità di elaborare nuove visioni e la seconda imparare è a conoscersi profondamente. Noi siamo portati a pensare che la tecnologia sia un semplice strumento da infilare nell’organizzazione, in realtà la tecnologia rappresenta un passo da compiere, ma non è il primo. Prima di fare un investimento in tecnologia bisogna capire quali sono gli orientamenti strategici dello studio (recuperare efficienza, lavorare sulle relazioni con i clienti, sviluppare nuovi servizi, aumentare i ricavi, contenere i costi, acquisire nuovo know-how, ...). Altro aspetto da non sottovalutare: attenzione a non confondere la formazione con l’addestramento che si limita a rendere abili le persone a usare gli strumenti, ma non a comprendere gli impatti della tecnologia sul business e a saperlo misurare.

D: Quando si parla di tecnologia si parla anche di intelligenza artificiale.

R: Il problema non è mettere l’AI all’interno degli studi, ma elaborare una strategia data-based, cioè, sapere cosa fare con i dati e soprattutto di quali dati ho bisogno e come questi mi possono aiutare a raggiungere i miei obiettivi. Il problema poi non è adottare o meno l’AI ma cosa succede se gli altri decidessero di adottarla e io no.

D: Negli ultimi decenni si è passati da una cultura prodotto centrica a una cultura customer centric. Ma l’impatto dei servizi degli studi sulla catena del valore dei clienti sembra ancora debole.

R: La cultura customer-centric è ancora in fieri nel mondo professionale. Se però segmentiamo il mercato, si nota immediatamente che i grandi studi sono già in corsia di sorpasso, hanno preso coscienza che serve lavorare in ottica del cliente e della customer orientation e stanno mettendo in discussione i loro paradigmi tradizionali. Da un’indagine che abbiamo condotto è emerso che i modelli pensati dagli studi non sono quelli pensati dai clienti, anche in chiave di nuovi prodotti da immettere nel mercato. Questo vuol dire che all’interno delle professioni, parliamo di quelle giuridiche ed economiche, è necessario investire sulla capacità di elaborare dei nuovi modelli dove il cliente è al centro. Cosa non facile perché normalmente il professionista riceve il bisogno o dalla normativa o dal cliente, che autonomamente esplicita una necessità. Non è ancora maturata quella cultura che porta a sviluppare l’ascolto attivo del cliente, a fargli tante domande sul suo business, sulle sue difficoltà, a raccogliere informazioni.

In questa catena del valore, di base, gli studi professionali si posizionano sui processi di supporto e in maniera più rarefatta sui processi primari e direzionali, che invece sono quelli a cui prestare maggiore attenzione, perché è con questi processi che l’azienda remunera il capitale di rischio, paga gli stipendi a fine mese, definisce le linee di investimento per la sostenibilità nel tempo (che significa anche salvaguardare posti di lavoro) Il valore per un professionista è riuscire a capire dove vanno a finire i suoi servizi, quale utilità i suoi servizi generano in termini di risparmio sui costi. Da questa consapevolezza scaturiscono nuove attività per aumentare la fidelizzazione dei clienti le strategie di up e cross selling, sviluppare nuovi servizi. far nascere nell’azienda la possibilità di aumentare i ricavi, di creare cultura aziendale o un misto di tutte queste cose.

D: Il rapporto fiduciario che è alla base della cultura professionale è ciò che rende difficile immaginare uno studio gestito con i canoni aziendali.

R: Pensare che la professione si esaurisca nei suoi canoni tradizionali condiziona tantissimi comportamenti. Uno dei problemi più grossi per un professionista è vendere i propri servizi perché non è abituato a ragionare con la logica del mercato, ha sempre agito per passaparola o dietro l’emanazione di una legge (mercato law- driven). A questo proposito l’innovazione di prodotto, supportata dalla tecnologia, diventa cruciale. Pensiamo solamente alla mole infinita di dati che gli studi gestiscono fin dalle loro origini e che sono prevalentemente usati in chiave di compliance normativa e non business oriented. I dati, opportunamente aggregati ed esaminati, permettono di avere maggiore consapevolezza sugli accadimenti dello studio, compresa la redditività dei clienti e la ripartizione dei costi, e di fornire validi supporti informativi per le decisioni che i clienti devono prendere per la loro organizzazione. Questa è un’area strategica: chi prima svilupperà questi orientamenti, si creerà un vantaggio competitivo.

D: Se i servizi “da vendere” non sono ancora stati digeriti dai professionisti, il PNRR c’è chi lo vede come un vantaggio, chi come un ulteriore carico di lavoro o un adempimento.

R: Gli studi professionali con una struttura gestionale più evoluta vedono nel PNRR un’opportunità di affiancamento alle imprese per aiutarle a sviluppare elementi di maggiore competitività, altri lo vedono come un provvedimento al quale non riescono ad agganciarsi, per cui è percepito come un rischio o come un adempimento legato alla normativa, mai come un bisogno del cliente da soddisfare. Anche questa risposta deriva da una cultura non ancora customer oriented. Gli obiettivi sono chiari – portare il mondo della piccola e medi azienda a più elevati livelli competitivi e culturali – c’è difficoltà a tradurre i pensieri in azioni. Alcuni lo hanno compreso e stanno agendo di conseguenza.

D: Nonostante tutte le difficoltà, i professionisti under 50, vedono un futuro più roseo rispetto ai colleghi over 50.

R: Il significato di questi ultimi dati non è sottolineare che dalla carta d’identità capiamo quali saranno gli atteggiamenti e i comportamenti. L’obiettivo qui è evidenziare che al di sotto di una certa età, proprio perché il consolidamento dell’attività e delle esperienze non è ancora avvenuto, si guarda più facilmente fuori dalla finestra. Ma questa propensione, come quella di sviluppare nuovi servizi e di investire in tecnologie, si può allenare, per farla diventare routine. Cioè: la carta d’identità conta, ma fino a un certo punto. È importante guardarsi in giro, confrontarsi con i più bravi, guardare con occhi nuove le novità per coglierne il valore potenziale.



Roberto Crasnich

Avvocato Studio Legale Crasnich

11 mesi

Interessante ed acuta analisi, che coglie nel segno a mio avviso le criticità nell'attuale organizzazione degli studi professionali e nell'assenza di una visione e politica per la crescita dei professionisti

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