Essere restauratore vuol dire fare un lavoro iperspecializzato e allo stesso tempo molto diversificato - Intervista a Kristian Schneider, Pres. di ARI

Essere restauratore vuol dire fare un lavoro iperspecializzato e allo stesso tempo molto diversificato - Intervista a Kristian Schneider, Pres. di ARI

Kristian Schneider

#ARI - Associazione Restauratori d'Italia


Il percorso formativo per diventare restauratore è difficile e non molto chiaro. Bisogna frequentare una scuola di restauro di alta formazione della durata quinquennale, in cui ci si specializza in uno dei settori del restauro. Ma i posti sono pochissimi e le selezioni molto dure. Oppure seguire un percorso triennale che dà il titolo di tecnico del restauro. Ci sono poi, sia università che offrono corsi di Restauro dei beni culturali, sia Accademie di Belle Arti, ma l’equipollenza del titolo non è sempre garantita. Ci aiuta a fare chiarezza?

Ormai il percorso per diventare restauratore è abbastanza definito. L’unico riconosciuto è la laurea quinquennale in restauro dei beni culturali, con codice LMR-02. Mentre il percorso come tecnico di restauro non da possibilità di integrare una formazione per arrivare al livello superiore, in quanto è un titolo regionale e non è integrabile a livello universitario. I posti possono sembrare pochi, ma ci sono attivi 27 istituti accreditati con 31 percorsi formativi che equivalgono a 250/300 posti l’anno. Le selezioni, in verità, sono meno dure rispetto a 10 anni fa.


Per diventare restauratore bisogna conoscere la storia dell’arte, avere competenze in chimica, biologia, trattamento dei materiali, ma la cultura non basta, occorre saper fare. Cosa consiglia ad un giovane che ha appena iniziato gli studi?

 Grande curiosità, apertura mentale e già durante gli studi riflettere sul quale avvenire professionale vuole avere, senza precludersi nessuna possibilità. Pensare se vuole mettersi in proprio, lavorare come dipendente o diventare un professionista impegnandosi in attività come la progettazione, la direzione lavori o i collaudi. La conoscenza è pluridisciplinare, ma è opportuno fare delle scelte strategiche per capire se rimanere all’interno del campo universitario e della ricerca, andare all’estero o fare altre scelte che impongono un percorso diverso da integrare con la pratica.

 

Precariato e difficoltà a trovare un lavoro sufficientemente retribuito sono gli aspetti che i giovani tecnici del restauro e restauratori lamentano in Italia. Qual è la situazione che Ari ha fotografato nel nostro Paese?

È una situazione difficile. Per sua natura è un lavoro che tende a costringere chi lavora a dei frequenti spostamenti. È raro riuscire a stare nella città di residenza per 12 mesi consecutivi. Il problema dell’inquadramento poi è un problema molto grave. Nelle stazioni appaltanti non c’è nessun controllo tra il tipo di inquadramento e le mansioni effettivamente svolte e questo provoca concorrenza scorretta e anche discriminazione.


Il vostro è un lavoro molto pratico che richiede grandi abilità manuali e di precisione, oltre che pazienza e meticolosità. Quali sono, secondo lei, le skill fondamentali da possedere?

Capacità di vedere l’insieme. La professione tende a porre attenzione sul dettaglio e sul particolare, ma per svolgere bene il lavoro è bene avere una visione globale del progetto. Mi lasci fare una appunto. Nell’immaginario comune, si tende ad attribuire al restauratore il concetto di pazienza intesa anche come tempo speso su un progetto. Ma se ci pensa, la pazienza non è sola del restauratore, anche il chirurgo o il dentista hanno bisogno di molto tempo per eseguire un intervento complesso. La pazienza non è propriamente della nostra professione, a volte si necessita di efficienza, rapidità e altre volte ci sono operazioni che richiedono molto tempo. È un lavoro altamente professionalizzato che richiede grandi competenze e conoscenze e non viene fatto per passione, o non solamente per quello.


A parte la bellezza di poter vedere e toccare da vicino le opere d’arte, quali sono, sul campo e non, le difficoltà del restauratore?

La mancanza di comprensione del lavoro da parte della PA e delle stazioni appaltanti, la difficolta di continuità lavorativa anche per concorrenza sleale da parte delle ditte edili, che utilizzano il restauro architettonico per svolgere lavori non proprio di loro competenza. Un’altra problematica è quella della mobilità che costringe spesso a muoversi, ad avere cantieri fuori, e soprattutto per i giovani, la difficoltà di ottenere un corretto inquadramento rispetto al titolo di studio e di conseguenza una retribuzione adeguata e una continuità di lavoro. C’è in generale una scarsa visione dell’amministrazione pubblica sul valore generato dal comparto che non si ferma al biglietto venduto, ma c’è tutto l’indotto che ruota intorno ai beni culturali e che muove miliardi. Manca una strategia di valorizzazione non solo in termini di turismo, ma anche come identità di luogo e benessere del territorio che è ciò che permette di resistere ai momenti drammatici, come abbiamo visto durante la pandemia. 


Quella del restauratore è una professione molto itinerante, soggetta agli appalti e, per via di alcuni tipi di materiali, spesso vincolata alle stagioni. I grandi cantieri di restauro sono rari, e sono vinti dai pochi colossi nazionali che poi ingaggiano i restauratori a partita Iva o tramite contratti a progetto. Allora come può un giovane far crescere la propria professione?

 Io consiglierei a tutti, per un periodo di qualche anno, di fare esperienza cambiando diverse imprese di restauro, ma rivolgendosi ad imprese di restauro vero, non cercando scorciatoie nel reparto edile. In ambito professionale nelle imprese specialiste c’è molto di più da imparare. Ormai è inevitabile, tranne che per i figli d’arte, associarsi, creare dei consorzi o delle cooperative che permettono di mettere insieme conoscenza, contatti e di crescere per raggiungere una certificazione SOA e accedere agli appalti. Un’altra possibilità è cercare di entrare nel mondo dell’istruzione, con tutte le difficoltà che ciò comporta, perché manca ancora una riforma che permetta di essere assunto a ruolo. 

 

Uno dei più grandi committenti è lo Stato, l’Italia ha un’altissima concentrazione di beni culturali da conservare, ma si fanno poche campagne di restauro per mancanza di fondi. Con questi presupposti perché un giovane dovrebbe impegnarsi in questa carriera?

 La mancanza di fondi impegnati nella professione è un problema strutturale, storico, molto difficile da superare. È una professione bellissima, io sono ancora, tutti i giorni contento di andare a lavorare. Ti mette sempre davanti a nuove sfide e davanti a problematiche nuove che rimettono in discussione tutto quello che hai imparato. Inoltre, è un lavoro di scoperte e crescita professionale e personale continue. In un mondo sempre più iperspecializzato, avere questa vastità di lavoro e così diversificato è una qualità molto rara. Non interveniamo solo nell’economia della bellezza, ma anche in contesti archeologici, dei documentari, insomma sui valori immateriali di cui gli oggetti sono portatori, nel nostro lavoro c’è anche una forte componente sociologica.

 

Il restauratore deve essere in grado di capire quanto può durare un'opera, definire le migliori modalità di conservazione e di trasferibilità (da un museo ad un altro, ad esempio), considerando la deteriorabilità dei materiali con cui è composta. A lui spetta anche la competenza di decidere se concedere un'opera in prestito o negare lo spostamento, per motivi di conservazione e integrità. Quali competenze, e che tipo di percorso, bisogna fare per arrivare a questo livello di responsabilità?

 Serve la formazione corretta, competenze e conoscenze, tanta esperienza, tanta umiltà e la capacità di mettere in discussione le proprie certezze e trovare dei compromessi tra aspettative diverse. Negli ultimi 20 anni abbiamo assistito a una forte pressione dell’opinione pubblica sui musei, ma alcune cose hanno un senso solo nel luogo in cui si trovano. Per valorizzare il sistema Paese, quale modo migliore se non quello di vedere un’opera all’interno del proprio contesto? Un’altra competenza molto utile è una capacità di comunicazione, dobbiamo saper dialogare con gli specialisti, ma anche con la collettività per spiegare le nostre scelte. Infondo i beni culturali sono un prodotto della società per la società.

 

I restauratori esperti oggi sono molto pochi e tutti avanti con l’età. Negli ultimi decenni sono pochi i giovani che hanno scelto di intraprendere questo percorso. Cosa serve per far riconquistare la fiducia in una professione così appassionante e ricca di cultura?

È vero in parte. I volti più noti sono sempre gli stessi e sempre più avanti con l’età, ma con la riforma del sistema formativo produciamo un numero molto alto di giovani professionisti. Per far scegliere la professione serve però un contesto culturale, amministrativo ed economico che dia prospettive anche ai giovani di trovare soddisfazione, anche di tipo economico. Serve poi una visione. Il turismo come lo vediamo è piuttosto di basso livello, stagionale e poco sostenibile e con un alto impatto ecologico e sociale.

 

Il 90% dei vincitori dei bandi di accesso a scuole di alta formazione è donna. Si può dire che quella del restauratore sia una professione a vocazione prettamente femminile? E se sì, perché?

Quello del gender gap è un grossissimo problema, a livello nazionale, al di fuori del comparto edile, per l’85% è una professione al femminile e se questo, dalla politica, viene usato per complimentarsi, in realtà nasconde una triste verità. Quando una professione diventa tutta al femminile vuol dire che è sottopagata. Essendo pochi gli impieghi a tempo indeterminato, si aggiunge anche il problema della dispersione delle competenze perché, arrivati ad una certa età, sono in molti a rinunciare alla professione.

 

I restauratori italiani, per la buona preparazione accademica e per lo studio sul campo delle opere antiche del nostro patrimonio, sono molto richiesti all’estero. Cosa deve fare lo Stato e la categoria, per trattenerli in Italia?

 Dare prospettive economiche, sia a livello di impresa, che di impiego privato e nella PA. Abbiamo una cronica mancanza di figure all’interno del ministero e negli organi istituzionali, ma delle centinaia di assunzioni previste, negli ultimi bandi c’erano solo 2 restauratori richiesti, che in breve tempo diventano oberati di lavoro. C’è una mentalità che pone altre figure ai posti dirigenziali e una mancanza di visione del contributo che la professione può apportare per la tutela del patrimonio.

 

Perché un giovane restauratore dovrebbe iscriversi ad ARI?

Perché la rappresentanza è importante. Una voce che non c’è non partecipa al dibattito e non indirizza le scelte. Siamo l’unica associazione che raccoglie esclusivamente restauratori dei beni culturali; quindi, siamo i primi interlocutori con il ministero della cultura e del Miur ai quali portiamo le istanze dei nostri iscritti. Da quando sono entrato in Ari, per me c’è stata una incredibile apertura mentale, grazie al confronto che ho avuto con i colleghi e grazie alle loro esperienze. Ho imparato tanto dal confronto e ho approfondito meglio le normative, anche a livello europeo. Facendo parte di ECCO (European Confederation of Conservator-Restorer’s Organization) partecipiamo al dibattito politico anche a livello europeo.

Paola Pesce

Laurea accademia belle arti presso Fratelli Pesce srl

3 mesi

Buongiorno Sono Paola Pesce Sono interessata al lavoro come restauratrice Le invio CVC?

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