Il "leader gentile" non alza mai la voce... e nemmeno il fatturato.

Il "leader gentile" non alza mai la voce... e nemmeno il fatturato.

Il mito che la leadership debba essere fondamentalmente gentile, morbida, quasi timorosa di disturbare, è una delle più perniciose illusioni del nostro tempo.

Ci stanno insegnando che dobbiamo essere docili, evitare ogni scontro, non ferire sensibilità, camminare sui gusci d’uovo – ma non è grottesco che, in una società ossessionata dal progresso, si celebri la mediocrità di leader che non osano sfidare niente e nessuno?

Essere leader non significa accontentare, significa TRASFORMARE.

E trasformare richiede forza.

La gentilezza è sempre importante, ma può diventare un ostacolo e spesso è solo una maschera per evitare decisioni difficili.

È una virtù, certo. Il punto è che, come tutte le virtù, se diventa un dogma perde di sostanza, diventa stucchevole ipocrisia.

Nessuno diventa leader senza incorrere nel disappunto di qualcuno.

Immagina un capitano che, in mezzo a una tempesta, si preoccupi più di non urtare i sentimenti della ciurma che di portare la nave in salvo.

La leadership autentica non è interessata a “piacere”, ma a REALIZZARE, e un leader autentico è anche disposto a farsi detestare, se necessario, perché comprende che il benessere a lungo termine supera di gran lunga il disagio momentaneo.

Alcuni anni fa ho lavorato con un manager di un’azienda tecnologica.

Ogni settimana, durante le riunioni di aggiornamento, ascoltava i problemi del team, li accoglieva con partecipazione e cercava di non offendere mai nessuno.

Quando un progetto non veniva completato nei tempi previsti, minimizzava la questione dicendo: “Non preoccupatevi, ci rifaremo la prossima volta”.

Che cosa accadde?

Più della metà dei progetti fallivano, le scadenze slittavano, i clienti davano in escandescenze (un paio fecero anche causa all’azienda).

Il team, non essendo mai stato messo davanti alle proprie responsabilità, continuava come aveva sempre fatto.

Fino a quando il manager non si accorse di aver confuso la disponibilità con la competenza e la sua gentilezza era diventata una forma di autosabotaggio.

Cosa avrebbe dovuto fare?

Dire la verità.

Subito. Senza indorare la pillola: “Questi ritardi sono inaccettabili. Ecco dove abbiamo sbagliato. Ora dobbiamo costruire assieme un piano per correggere il tiro e mi aspetto miglioramenti immediati”.

La gentilezza, qui, è secondaria rispetto alla chiarezza e all’azione necessaria.

La leadership non è una forma di comprensione compassionevole; è l’arte di separare ciò che funziona da ciò che non funziona.

Allo stesso modo, la verità è un atto d’amore molto più profondo dell’indulgenza.

Un leader non si preoccupa, banalmente, di apparire amichevole o accomodante; deve vedere più lontano, molto più lontano della quieta sopravvivenza quotidiana.

Non mi stancherò mai di ripeterlo: non puoi salvare le persone dalla sofferenza necessaria al loro stesso miglioramento.

È quella che io chiamo “gentilezza con la schiena dritta”.

Non c’è nulla di più crudele che permettere a una squadra o a un individuo di rimanere nella mediocrità per paura di ferirne l’ego o i sentimenti.

La leadership non riguarda il consenso, riguarda la VISIONE e la visione, per sua stessa natura, è spesso scomoda, impopolare, controcorrente.

Per questo la gentilezza può trasformarsi in una trappola: la trappola di chi vuole essere accettato e amato a tutti i costi.

Vuoi essere un leader o un amico?

Perché non puoi essere entrambe le cose allo stesso tempo.  



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