Il mondo del bullismo
L’esperienza di “essere-al mondo” non avviene per determinazione naturale, ma è un percorso esistenziale che si definisce attraverso esperienze affettive con l’altro, nelle quali ci si specchia per potersi riconoscere. L’essere al mondo è una condizione che si sviluppa con: l’esperienza dell’altro, l’esperienza con l’altro, l’esperienza attraverso l’altro.
Un compito fondamentale della funzione genitoriale (e in generale dell’adulto) rispetto all’infante e allo sviluppo del bambino è riuscire a fornire a quell’“essere-al mondo” la capacità di dare all’esperienza una gestione emozionale tale da permettergli di mentalizzazione ed un riconoscimento dell’esperienza, senza doverla respingere (tenere fuori o eliminare) o sentirsene invaso. Se il bambino non riceve risposte idonee alla regolazione dell’emozionalità sperimentata svilupperà una serie di modalità che avranno in comune tra loro un certo distanziamento dal senso di verità. Questo distanziamento dalla verità, come processo consolidante, può essere rappresentato dall’intrapresa di percorsi di allontanamento da nuclei dell’esperienza, cui fanno corrispondenza esperienze così invasive che non possono essere sentite, quindi simbolizzate e pensate, ma solo eliminate: si alimenta così un problema nella esperienza e nella identificazione degli oggetti dell’esperienza, che diventa un problema di accesso al senso di verità.
La verità acquista una particolare funzione costruttiva nell’adolescenza. Nello sviluppo puberale il corpo si ingrossa e si ingigantisce, tramutandosi, direzionandosi e spingendosi ad una dimensione adulta: la crescita dota di un corpo-involucro nuovo e inaspettato, un nuovo contenitore identitario, sconosciuto, perlopiù vuoto, da riempire di elementi identitari, e in molte parti. Come fa notare Jeffè quest’accrescimento del corpo a dimensione adulta implica una rimodulazione dei rapporti tra contenuti<->contenitori mentali (rifacendosi al modello bioniano) e nel legame tra il sé corporeo e sé corporeo dell’altro (rifacendosi alla teoria dell’io pelle di Anzieu): “l'adolescente è alla ricerca di un suo percorso di individuazione e di separazione, ma è altrettanto vero che, a questo percorso, corrisponde solitamente un cambiamento del contenitore familiare. Questo risulta talvolta intollerabile per cui il contenitore non ha possibilità di una evoluzione e di una trasformazione e rimane fissato in un suo tempo circolare nonché chiuso in un suo confine rigido. Oserei dire che l’‘invarianza’ ha totalmente preso il sopravvento sulla 'trasformazione' venendo a costituire un tipo di relazione parassitaria. Tuttavia io non credo che questa sorta di collassamento del contenitore o, se vogliamo, di un apparato per pensare i pensieri, dipenda strettamente dal tumulto adolescenziale, ma piuttosto che questo tumulto diviene il 'fatto scelto' di un non funzionamento nella storia di una configurazione contenitore – contenuto”. Il passo è particolarmente interessante perché pone l’adelescenza come una fase critica, in cui il corpo diviene un involucro identitario nuovo, sconosciuto, simile all’adulto, internamente ancora non collocato, portatore di una realtà impropria, perlopiù vuoto di contenuti, da riempire, esternamente invece da misurare, da scoprire, da confrontare, da farsi definire.
Jeffè suggerisce anche di pensare come l’assenza di funzioni trasformative affidabili acquisite dal bambino nelle sue esperienze di legame con il mondo adulto, possano impedire all’adolescente di realizzare una crescita in termini di sviluppo mentale: la crescita in questi casi tenderebbe ad attestarsi ad una sorta di “ingrandimento” (e non sviluppo), alimentandosi di contenuti che possano riempire e sostenere l’aumento del volume, contro l’angoscia del vuoto.
Domande esistenziali che portano ad auto interrogazioni su sé in adolescenza rispondono proprio a questa esigenza. L’assenza, il vuoto, sono questi i vissuti di fondo che connotano l’angoscia in adolescenza. La capacità trasformativa, la possibilità di realizzare trasformazioni, di tollerare ed utilizzare questa assenza come condizione di crescita permetterà un percorso di esplorazione e l’arricchimento identitario dell’adolescente, di riconoscimento emozionale di sé e dell’altro, percorrendo il complesso percorso verso il senso della verità. Esiste tuttavia una strada più immediata, che alla fatica trasformativa, antepone un processo di immediata reazione, l’agire volto a tramutare immediatamente uno stato di assenza/vuoto con uno di non-assenza/non-vuoto, una strada corta, che non porta novità, ma conferme, ripetizioni, una strada che pone risposte, no movimenti, né trasformazioni. Su questa strada più immediata il corpo diventa un oggetto a sé, un eroe esterno, al quale ci si può aggrappare, o al quale si può rimanere impigliati; un corpo che comunque non corrisponde immediatamente e scontatamente ad uno spazio di autenticità, ma che va personificato, governato, fatto proprio. L’identità in questo nuovo corpo è un eroe che però ha bisogno di conoscersi, di misurarsi, di confrontarsi, di compararsi, di provarsi, di testare i confini, i limiti, di definirsi uno spazio, uno scenario, una sceneggiatura ed un ruolo; un eroe che ha bisogno di confermarsi, un’adultità del corpo che va provata con sfide al mondo degli adulti, un nome e cognome che devono diventare il proprio, da testimoniare confermandosi in scritte, caratterizzandosi in nomignoli, identificandosi con fatti ed esperienze degne di memoria: insomma una identità che deve potersi tenere in piedi da sé, riempirsi. Proprio per questa esigenza di riempimento rapido del vuoto, questo eroe in corso di identificazione appare simile al protagonista del “Colosso d’argilla”: potrà saturare la sua grandezza, alimentandosi di mitologie e di esperienze limite, ma non per questo incontrerà verità, e la saturazione, questo riempimento maniacale, sarà destinato a lasciare il vuoto, a ripresentare l’assenza. In questo senso vanno le condotte tese a infrangere, vedere, provare, sperimentare, misurare, dimensionare, ingrandire, prendere un posto, un ruolo, un nome: permettono di mettere a tacere i dilemmi sulla identità: essere forti, grandi, onnipotenti, grandiosamente pieni; e, al limite, anche potersi dire vinto, debole, incapace, è assai meglio che non avere un posto, né un nome, né una collocazione. E tanto più questa esigenza di ottenere rapide risposte e tacere pensieri si fa forte, tanto è più facile cogliervi all’interno l’angoscia sottostante.
Nel quadro di questi compiti esistenziali dell’adolescente, proponiamo di considerare il bullismo come il tentativo di risolvere l’angoscia del vuoto e dell’ignoto, organizzando modelli e schemi di rapporti sociali tale da realizzare una saturazione dei ruoli.
Se si guarda al bullismo come ad una sceneggiatura, possono cogliersi animazioni di specifici copioni relazionali. L’invito però è di guardare alla sceneggiatura nel suo insieme, per provare a ricomporre un quadro che attraverso le singole azioni o la focalizzazione sui ruoli si troverebbe scomposto e parzializzato, risultando per certo versi mistificato. Proponiamo in altri termini di considerare tale “sceneggiatura” come il tentativo, non individuale, di dare organizzazione collettiva ad una profonda angoscia condivisa che non può essere ancora adeguatamente trasformata, e che non si vorrebbe sentire: la sceneggiatura diventa appunto lo schema, quindi, per liberarsi da questa angoscia, o per provare a dargli un collocazione esterna e fattuale. Ma procediamo per gradi.
Tipicamente la sceneggiatura prevede tre soggetti e uno sfondo.
Lo sfondo è un percorso evolutivo entro il quale, per un motivo o per l’altro, si sono addensate esperienze di frammentazione e perdita (non momentanea, né occasionale, ma solitamente una perdita sentita come invariante delle esperienze) della funzione del mondo degli adulti, tra tutte quella genitoriale: può sottostare ad esempio il precipitato di esperienze di negligenza nelle cure, di mancanza di legami affettivi autentici, di mancanza di esperienze di utilità e di protezione associabili ad atteggiamenti autorevoli e a limitazioni poste dagli adulti (autorità ingiuste e imposizioni senza scopo), soppiantate piuttosto da esperienze di legame fondate sul potere e/o sull’assenza da parte del mondo adulto. Possono sottostare esperienze di genitori disinteressati a sentire e conoscere i vissuti del figlio, o che hanno abdicato a essere presenti, magari anteponendo al rapporto cose materiali o dinamiche relazionali fisse e non volte allo scambio affettivo. Quale che sia la forma, lo sfondo è una ferita profonda causata da esperienze non funzionali nel legame con gli adulti significativi, per cui:
- gli adulti non hanno realizzato legami sinceri e fondati sul riconoscimento degli stati affettivi e sulla loro regolazione, sostenendo e sollecitando una funzione trasformativa e metabolica delle esperienze; le esperienze piuttosto sono state riconosciute come cose a sé, su cui non c’è molto da trasformare, ma solo da agire (azioni, reazioni, dimostrazioni…): le esperienze hanno animato oggetti freddi, insensibili, indifferenti, rigidi, cinici, talvolta spietati e sadici. Adulti che hanno sconfermato il valore del mondo interno e dei vissuti del bambino, o negandolo, o sottraendosi alle identificazioni proiettive (nell’accezione ampia che ne da Bion, ovvero di “funzione di legame”), annientando in questi parti vitali, per mancanza di reverie (Bion parla di scissione tra realtà sensoriale ed emozionale). Un modo, spesso non considerato, di sconfermare la realtà del mondo interno del bambino è quello di “assecondare indifferentemente” qualsiasi sua richiesta: in queste esperienze bambino e adulti confermano e cristallizzano un processo di “devitalizzazione delle funzioni”, misconoscendo gravemente le realtà emozionali poste da entrambi nel rapporto, non ponendo nel legame funzioni trasformative e adottando un traduttore ipercontenitivo che restituisce azioni automatizzate, monotone e ripetitive di erogazione (si pensi ad esempio ad un lattante che riceve automaticamente il seno come risposta ad ogni sua agitazione, anche quando non è affatto la fame "da assenza di cibo" ciò che sta sperimentando).
- gli adulti hanno invaso lo spazio mentale del figlio. Un’esperienza di soppressione e annullamento attraverso una sistematica inondazione emozionale, che hanno solitamente condotto ad addensare fantasie angoscianti di divoramento: che è appunto il contrario di “alimentare nutrendo”, perché il divoramento cerca l’annullamento radicale dell’altro, impossessandosene, mentre il nutrimento implica un rapporto affettivo entro cui sviluppare legami vitalistici e di cura. Il divoramento è parassitario (“o in me, o in te: e se in me, non in te; e se in te, non in me”), mentre il nutrimento è simbiotico (“da me a te: in me e, così, in te”). Più che un contenitore di esperienze, quindi, chi ha in sé esperienze di “esser stato divorato affettivamente” mantiene una profonda esperienza di alienazione, e sente piuttosto i rapporti come spazi da occupare. Il legame, sviluppato in queste formule, è connotato dalla possessività selvaggia e si articola su logiche emozionali tutto-niente, pieno-vuoto, mio-tuo: è riconoscibile la tendenza a farsi investire dalle identificazioni degli altri, e al contempo a possedere l’altro attraverso proprie fantasie. Sotto dinamiche reattive di incorporamento, che tipicamente si orientano più sul “riempimento”, sull’accumulo senza rilascio e sulla tendenza a saturare il più possibile, sono abbastanza riconoscibili i vissuti di smarrimento, incompletezza, incapacità a integrare/integrarsi, frammentazione, arrendevolezza, assenza di verità e paura del vuoto: la famelicità è l’aspetto più riconosciuto delle esperienze proprie e altrui (sono evocate intensamente tematiche quali: interessi, vantaggi, opportunità, ecc).
I soggetti sono solitamente identificati con: il bullo, la vittima, la platea. Mentre di solito si sottolineano i fattori di personalità di bullo e vittima, proponiamo di rivalutare l’importanza che assume la platea. Mentre la coppia bullo-vittima si esprime su due posizioni complementari e compiendo le azioni risaltano come protagonisti, seppure la platea è ritratta nello sfondo in modo spesso amorfo, non protagonista, è proprio la platea che dà un destino emozionale e di senso alle azioni. Si potrebbe dire che mentre la vittima è un oggetto fantasmaticamente posseduto dal bullo, con la platea il bullo deve confrontarcisi, ed è, per così dire, dipendente dalla immagine di sé che la platea ne rifletterà. La platea, in altri termini, esprime una funzione che risponde ad una domanda identitaria esposta dalla diade bullo/vittima e permette di coagulare elementi di realizzazione: la platea conferma e in ciò avvera. L’identità è sempre da considerare nel suo rapporto di specularità con gli altri. Questi “altri”, nella loro funzione di definizione identitaria, li stiamo chiamando “platea”, e dovremmo considerarli come un luogo dinamico di ricerche e modulazioni, un luogo fatto di rapporti entro i quali si attivano modelli e si concepiscono forme identitarie. Probabilmente è poi utile espandere il luogo della platea ad un livello non unicamente contestuale sui singoli eventi (ad esempio le persone presenti, o gli specifici rapporti della realtà), considerando come fattori ispiratori i luoghi della mentalità sociale, quell’ampio sfondo di riferimenti che è dato dalle enormi sacche dell’immaginario culturale, le quali rendono disponibili e realizzano mitologie di personaggi e dei loro caratteri identitari. Questo ci porta a considerare un possibile legame di determinazione tra: “immaginario, percezioni, fantasie e vissuti emozionali culturalmente condivisi come sostanza collettiva dell’esperienza dello stare in questo mondo” e “il fenomeno del bullismo”, seguendo su questa strada la domanda “perché oggi il bullismo trova così tanta gravità di attenzione ed espressione”.
La nostra società sta attraversando negli ultimi anni profondi cambiamenti. Cambiamenti che perlopiù si contraddistinguono in termini di perdite ed assenze. La crisi è un termine attuale che identifica e satura complesse articolazioni di decadimento e dissolvimento dei riferimenti propri dei sistemi economici, politici, ideologici e culturali identificati, ma indica anche un offuscamento della capacità di visione prospettica, progettuale e del futuribile, lasciando l’individuo in un profondo isolamento e disorientamento rispetto a modelli di convivenza sociale. L’ordine e i riferimenti sono delegittimati, in un divenire fumoso. Il futuro è sempre più indefinibile, contraddittorio, e gli eventi sono sempre più contrassegnati da brevissima vita, e sempre più alti i livelli di incertezza. Il futuro, in altri termini, non è più prevedibile, e sempre più è difficile investirlo di pensabilità e costruibilità; ci troviamo in un presente inaffidabile, un presente costituito da perdite. Ciò che qualsiasi giovane poteva sperare di costruire anche meno di 10 anni fa, è oggi divenuto un sogno obsoleto e irrealizzabile: il tempo indeterminato è una formula contrattuale pressoché non più disponibile culturalmente, e non solo sul lavoro: l’insicurezza dei rapporti e la precarietà sono realtà consolidate nelle esperienze diffuse di vita; di contro, abbiamo una società che permette una progettualità di vita ai soli che rientrano in certi requisiti, oggi difficilmente ottenibili. Una società iniqua, quindi, in cui è diffuso e intenso il vissuto di perdita e le chance progettuali sono o assenti, o a realizzazione magica, quindi rendendo difficile desiderare, pensare e progettare. La domanda che in questa sede ci vogliamo porre è: come e dove sta in tutto questo un giovane ragazzo?
Probabilmente tutto questo potrebbe arrivare ad un giovane in termini di derivati emozionali e pensieri pensati altrove, in quel mondo adulto che lo attrae e lo spaventa, e dal quale serve tuttavia riuscire ad acquisire modelli identificatori. Già, identificatori. Dagli scandali della corruzione politica come non percepire l’incarnazione di fantasmi predatori? Dall’inefficienza di un servizio pubblico, che porrà la sua famiglia in affanno o in difficoltà, come non percepire una condizione di fredda indifferenza? Dalla latitanza di una amministrazione di territorio, da uno sfondo urbanistico di degrado, dall’assenza di attività integrative e da un quartiere frantumato, quale scenario si potrà comporre nella mente di un giovanissimo cittadino, in forma di immaginario, fantasie e vissuti? …e le agenzie tradizionali, quali scuola e famiglia, sono ancora intendibili come modelli della “tradizione”, e possono ancora considerarsi come delle fucine in grado di costruire nei giovani una adultità capace di incontrare criticamente la realtà con un senso saldo di soggettività? …oppure oggi vanno considerati nuovi criteri e pensate realtà “non tradizionali” riguardo alla famiglia, piuttosto che alla scuola, e va posta una certa attenzione anche altri soggetti sociali per l’elevato grado della capacità di influenzamento sociale che esprimono?
La domanda appare retorica, perché è evidente che nella nostra società trovano sempre più influenza i modelli fondati sui “gruppi di potere”, sulle appartenenze escludenti, sulle logiche dell’“in-out”, del “far fuori l’altro, per vincere e prendersi tutto” (si pensi ad esempio che tutti i cosiddetti reality - che pullulano nelle produzioni televisive di tutto il mondo - promuovono proprio questo modello relazionale), dell’utilizzo manipolativo e noncurante del prossimo, ed in questo si rafforza uno scenario di sostanziale desolazione per l’individuo, fatto di ritiro difensivo, isolamento, solitudine, sospettosità, deterioramento delle funzioni affettive dei legami.
E' all’interno di questo scenario che proponiamo di considerare il fenomeno del bullismo, e di considerare l’importanza che assume oggi il riconoscimento e il nutrimento della soggettività (propria e altrui) come necessario equipaggiamento per sostenere le disarticolazioni anomiche che pure caratterizzano la nostra società: per sostenerne i vuoti, le perdite, per avere alternative concrete al convenzionalismo e alla gloria e grandiosità di eroi mitici, quanto parziali, quanto incompleti, destinati a perdersi nel vuoto e nell’assenza di verità.