Il punto che sfugge sulla rivoluzione digitale

Il punto che sfugge sulla rivoluzione digitale


1) non evoluzione, ma rivoluzione.

Nello scorso settembre, in una conferenza sulla Intelligenza Artificiale a cui ero stato invitato, nel mio speech ponevo a me stesso ed al mio uditorio la seguente domanda: I decisori che oggi fanno le leggi e le regole per la nostra società stanno davvero capendo la rivoluzione tecnologica in termini di che cosa accade e quanto è veloce la trasformazione indotta ? La risposta era negativa per diversi motivi ,quali ad es. l’abbaglio di interpretare una rivoluzione come l’evoluzione ordinata da uno stato all’altro della tecnologia per il consolidato principio che la natura non facit saltus; non avere le giuste categorie interpretative di ciò che stà accadendo, fuorviati dalle spiegazioni dei costruttori di dispositivi con interessi economici nel settore.E così via dicendo.

Per approfondire il tema , mi rifaccio ad una lucida analisi di un collega , che un mese dopo circa e autonomamente , senza alcuna interazione diretta o indiretta, arrivava alla stessa conclusione negativa,ponendosi la domanda : siamo pronti a gestire le conseguenze dell’ immane scossone della rivoluzione digitale ? Stefano Quintarelli, che si è occupato di questi temi fin dagli albori di Internet, si dava come risposta : non molto. 

2) il passaggio da economia materiale ad economia immateriale

Nel tentativo di poter contribuire alla comprensione dei fenomeni in corso , vorrei riportare per brevità l’analisi di Stefano e aggiungere a questa , un ulteriore tassello interpretativo. Di seguito, in bold , l’intervento di S. Quintarelli.

L’innovazione tecnologica ha ormai superato il suo punto di non ritorno e sta disegnando intorno a noi un mondo che è rapidamente cambiato. La Rivoluzione Digitale –ormai è chiaro – si configura di una potenza paragonabile a quella industriale del primo Ottocento o a quella agricola di 10 000 anni fa: un drastico e radicale punto di rottura nella vita di ciascun essere umano. Larga parte dell’opinione pubblica vive spaesata in un mondo che non riesce più a decifrare e di cui non conosce i meccanismi profondi. Ma se sono gli uomini a dover prendere in mano il proprio destino, è bene che tutti noi impariamo a capire il nostro nuovo ambiente digitale, che già ora (e sempre più in futuro) è diventato la nostra casa. Lo spostamento di interesse che il capitalismo ha mostrato dall’economia materiale – nella quale si producevano beni tangibili - all’economia immateriale – nella quale si instaurano intermediazioni, che hanno regole differenti – porta con sé cambiamenti epocali nella nostra vita quotidiana, che la politica (e dunque i cittadini) deve imparare a gestire e governare, se ha a cuore il bene comune. È una sfida colossale, che si sta sviluppando a ritmi frenetici. Nell’economia immateriale produrre, riprodurre, archiviare e spedire informazioni non costa nulla. Questo ha cambiato le regole del gioco al punto tale che le più grandi compagnie di intermediazione (nomi conosciuti come Facebook, Google, Amazon, Apple, Airbnb, Uber, ma anche molti altri, meno noti al grande pubblico) hanno fatturati che spesso superano quelli di una nazione, con margini da capogiro. Naturalmente osteggiano ogni trasformazione dannosa per i loro profitti. Tornare indietro, come farebbero i luddisti, è semplicemente impossibile; andare avanti senza governare il cambiamento è estremamente pericoloso. Non resta che capire cosa sta succedendo e agire per volgere a nostro vantaggio questa nuova sfida.

3) il valore del capitale intellettuale

Il punto che vorrei aggiungere – che ho ripreso da un paragrafo del mio recente libro sulla Economia della conoscenza (K-Economy) reperibile su Amazon –riguarda il passaggio dalla economia industriale alla economia della intermediazione e come tale passaggio comporti la necessità di revisione dei rapporti tra capitale e lavoro. L’indiscriminato disconoscimento della conoscenza come asset di un’Impresa, sia che assuma la forma di formazione accumulata dai dipendenti o di software legacy ormai in disuso, ha le sue origini nelle idee proposte più di un secolo fa riguardo il valore del capitale e del lavoro. Queste teorie sostengono che solo le attività di capitale aumentano la produttività del lavoro. Di conseguenza, la produttività di un’Impresa và misurata solo in termini di produttività del suo capitale, ad esempio, come ritorno sulle attività o ritorno sugli investimenti. I fornitori di capitale sono quindi i titolati a beneficiare del surplus,chiamato comunemente profitto o rendita. Se poi accade che la conoscenza permette che il lavoro migliori l’utilizzo del capitale, il fatto diventa la giustificazione per un salario più alto del lavoro svolto.

Con questo ragionamento, quelli che eseguono il lavoro effettivo non hanno diritto a partecipare alla rendita delle conoscenze accumulate. Il lavoro può ricevere solo un equo compenso per il tempo speso a lavorare. Il massimo che è consentito chiedere, è qualche premio ed un bonus ogni tanto. Questa maniera di pensare, non solo è fuorviante, ma produce anche l’effetto di giudicare il valore dei lavoratori dipendenti sulla base dei loro salari, piuttosto che sulla reattività di accumulo di conoscenze utili. La produttività del lavoro non è solo una questione di salari. La produttività deriva dal capitale di conoscenze aggregate nella mente dei lavoratori dipendenti, vuoi che assumano la forma di corsi formativi aziendali e/o esperienze rilevanti per l’Azienda. Gli assets intellettuali,differentemente da quelli fisici,aumentano di valore con l’uso, e questo ha implicazioni sul conto capitale....... …..La conseguenza è che il valore a libro di un’azienda è diverso dal valore di mercato. Perchè Microsoft o Google ,che producono software e servizi, cioè prodotti dell’intelletto,valgono oggi dei multipli in più della General-Electric , della Ford e della Volvo?....... Questo è il punto ! Non si riesce a passare da economia materiale ad immateriale se non si prende atto del punto espresso sopra.

4) conclusioni

Capire tardi e partecipare tardi a tale rivoluzione significa mancare all’appuntamento nel quale avviene la redistribuzione internazionale del lavoro. Laddove fossimo assenti ad un tale tavolo , significherebbe diventare classe subalterna e non classe dirigente.


 


 


Caro Sandro il problema piu grande di questa ultima onda tecnologica e' che  forse per la prima volta le categorie e le esperienze del passato non ci aiutano a capire che tipo di futuro ci aspetta. ti faccio una domanda: chi usa la AI oggi in Italia in maniera efficace?Forse solo coloro che stanno pensando ad una nuova generazione di sistemi di monitoraggio o di comando e controllo.

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