Il tramonto dell'Identità Aziendale

Il tramonto dell'Identità Aziendale

Molti anni fa, quando avevo iniziato da poco la mia vicenda professionale, un cugino che lavorava per un'azienda concorrente, prendendomi bonariamente in giro, mi diceva: "Beh ma voi siete tutti uguali, vi si riconosce subito!". L'oggetto della discussione era la formalità dell'abbigliamento di quegli anni, ma c'era di più. Si riferiva a un certo modo di porsi, di concepire il lavoro, di vivere la professionalità. Era quella che Schein definiva "cultura di terzo livello" di un'organizzazione: le convinzioni dei suoi membri (spesso inespresse, se non addirittura inconsapevoli), le motivazioni profonde delle loro azioni e il modo in cui questi sono stati selezionati e plasmati. Mio cugino parlava, insomma, di una "identità aziendale" molto forte, che in qualche modo traspariva in tutte le persone che facevano parte di quell'organizzazione.

La parola "Identità" ha un significato molto preciso. Indica "uguaglianza", coincidenza, corrispondenza. Ma l'azienda, in fondo, è solo un concetto. Non esiste. Qualcuno ha mai toccato un'azienda, ci ha mai parlato? Le persone invece si toccano, eccome. Sono loro ad avere un'identità, a riflettere un'uguaglianza. Quando si parla di identità aziendale, quindi, in maniera più o meno esplicita si parla di adesione delle persone a un modello. Di omologazione.

Epperò, il contrario di identità è diversità. Assistiamo quindi, negli ultimi anni, a enormi sforzi, se non vere e proprie acrobazie, per conciliare l'identità aziendale - questo mistico elemento che rende distintiva la cultura di un'organizzazione - con il rispetto estremo della diversità. Quando per diversità si intende anche, si badi, quella relativa al modo di concepire il rapporto con il lavoro e con l'azienda stessa.

Anni fa si discuteva della diversità nel "contratto psicologico" con l'organizzazione, che andava dall'estremo del "lavoro solo per lo stipendio" a quello di "io sono il mio lavoro". Oggi si parla di Millenials e Zeta, che devono far convivere la loro disillusione per il futuro con l'illuministica e muscolare fiducia dei Boomers. Ricerca del benessere vs cultura del sacrificio, indipendenza vs gerarchia, work-life balance vs achievement totalizzante. Solo per elencare alcune delle titaniche differenze tra le quali si dibatte il fragile virgulto dell'identità aziendale.

Una volta era piuttosto semplice: identità era soppressione della differenza. Se non ti adegui al modello, se non hai la "mentalità" giusta per l'azienda, meglio che tu non ne faccia parte. Oggi che questa mentalità comprende anche l'accoglienza della diversità, mi domando se abbia ancora senso il mito dell'identità aziendale. E se il passaggio dalla cultura dell' esclusività (nel secolo scorso tutto era "esclusivo", ricordate?) a quella dell'inclusività non dovrebbe consentirci di accompagnare dolcemente l'identità aziendale, alla quale dobbiamo tanto, verso un meritato ed eterno riposo.

Simone Blanco

Relazioni Di Distribuzione Credemvita e Credemassicurazioni

1 anno

Se le aziende non si possono toccare, al contrario delle persone , è proprio qui che si gioca la partita. È da parecchio che rifletto sull'argomento , soprattutto da quando ho visto nuove leve cambiare repentinamente strada. Penso che l'identità aziendale sia assimilabile al concetto di famiglia e più precisamente al rapporto genitori/figli. A fronte di importanti differenze di vedute sul futuro, permangono dei valori di base fondamentali che raramente mutano radicalmente. Questi valori sono dettati dall'entusiasmo con cui vengono trasmessi. Se sono sicuro che i miei figli più del "cosa" faccio guardino il "come" lo faccio, mi preoccuperei di affiancare alle nuove leve persone che, più che competenze, riescano a trasmettere entusiasmo. Il concetto d'identita' aziendale non lo vedo in antitesi a quello di diversità. Penso sia più banalmente una rotta da seguire, un esempio da emulare, e credo non ci sia generazione (x,y o z) che non abbia bisogno di un qualcuno che lasci un segno nella propria vita. Il futuro delle grandi organizzazioni, che si distinguono per una forte brand identity, e' in mano a quelle poche persone che hanno il dono di saper trasmettere l'entusiasmo per ciò che fanno. Grazie per aver trattato l'argomento

Andrea Montuschi

Employee Experience Advisor | Public Speaker | Employee Surveys Expert | Creative Facilitator | Trainer |  Team Coach

1 anno

Interessante osservazione, Andrea. Aggiungo un elemento, secondo me coerente con quanto scrivi: in passato trovavamo che engagement e intenzione di restare in azienda andavano insieme. Anzi, il primo era driver della seconda. Ultimamente, soprattutto dopo la pandemia e soprattutto fra i giovani (Z, escludo i Millennial, che così giovani non sono più 😉) troviamo invece dati di engagement alti e intenzione di restare bassa. Ciò perché la componente affettiva dell'engagement, quella più vicina al concetto di identità di cui parli, si è scollegata dall'intenzione di restare in azienda. Orgoglio, identità, attaccamento al brand... Questi concetti hanno perso forza e soprattutto sono diventati elementi di breve termine. È come se fossimo passati da amori duraturi a innamoramenti fugaci, magari intensi, ma temporanei. E l'identità aziendale in questo contesto c'entra poco. È semplicemente meno importante. Trovo questo cambiamento interessante e delicato, poiché presuppone anche una gestione delle carriere molto diversa, una pianificazione che tenga conto del fatto che potremmo investire su gente che un giorno ci guarderà in faccia e, come in un film di serie B, ci dirà "devo lasciarti. Ma non sei tu, sono io".

Filippo Casolari

BPER Banca - Servizio Prodotti di Investimento

1 anno

Bravo Andrea, ti leggo sempre molto volentieri.

Luca Belfatto

Senior Associate at Fluxus hr - Management Advisor - Executive Coach - Trainer

1 anno

Riflessione interessante e condivisibile Andrea. Forse spostando il focus da identità a cultura la pluralità potrebbe essere realistica. A quel punto i veri nodi sarebbero l’autenticità di chi la veicola (management e altro) e la consapevolezza di chi la vive (persone). Ma forse è questo il punto, oggi è cambiato solo il metodo di omologazione: se in precedenza era esplicito e forzato, oggi si innesta attraverso un “sedativo dolce”, sponsorizzando e concedendo una libertà solo apparente, per sedare l’identità e lo spirito critico nella sostanza. E generando ancora meno consapevolezza diffusa

Alessandro Carta

FP&A Professional, Experience in both banking and industry

1 anno

Mi chiedo anche se quello stesso concetto di identità non sia lo stesso che portava le persone nelle organizzazioni tradizionali e gerarchiche a vestire la famosa "maschera" nel posto di lavoro anziché presentarsi nella loro "interezza" con tutte le loro caratteristiche che come persone le contraddistinguono e le differenziano (intendiamoci, ai tempi in contesti più gerarchici, poteva funzionare benissimo cosí e i risultati arrivavano quindi ai tempi non era un errore). Se così fosse, ben venga l'abbandono della identità aziendale, ma con un grosso punto di attenzione: che non si perda quello che i cultori della materia chiamano il "purpose", quello che ogni giorno deve guidare e motivare ogni persona nell'organizzazione. Trovo le riflessioni che hai fatto molto interessanti e attuali!!

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