Il welfare secondo Luciano Consolati

Il welfare secondo Luciano Consolati

Com’è cambiato il sistema di welfare aziendale con gli effetti della pandemia?

La pandemia che ci ha colpito è intervenuta come uno tsunami nelle nostre vite e nel nostro sistema di relazioni sociali ed economiche. Tanto si è detto e si sta dicendo sugli effetti che questa tragedia potrà avere su di noi e sulla società in cui viviamo. Tra le tante opinioni, più o meno attendibili, l’unica cosa certa è l’incertezza, che fa da sfondo ad uno scenario che nessuno è ancora in grado di definire. Qualche effetto, tuttavia, lo stiamo già cogliendo ed è rappresentato dal rimescolamento della scala di valori sulla quale si basava il nostro agire quotidiano. Anche il Welfare Aziendale non è stato risparmiato da questo tsunami, infatti, in questi mesi si susseguono da parte dei fornitori di servizi di welfare, i cosiddetti providers, i tentativi di apportare adeguamenti incrementali alla propria offerta di servizi, cercando di rispondere ai cambiamenti in atto. Spesso, tuttavia, questi adeguamenti mostrano evidenti i livelli di inadeguatezza, di fronte alla drammatica realtà che questa emergenza ha evidenziato e che lo scenario futuro renderà ancora più pesante.

 Il welfare aziendale dovrà rideclinare la propria scala di valori. Mai come in questo periodo sono risultati evidenti i livelli di inadeguatezza di tanti flexible benefits, di fronte alla drammatica realtà che questa emergenza ha evidenziato e che lo scenario futuro renderà ancora più pesante. In questo caso non si tratta di intervenire con dei “pannicelli caldi” rappresentati da nuovi e fantasiosi flexible benefits, utili più a livello mediatico che a soddisfare reali bisogni. Bensì ripartire dall’ascolto dei possibili utenti ( lavoratori) e da una più intensa azione di lobby, affinchè il paniere dei servizi di welfare, non debba sottostare solo alle regole dell’Agenzia delle Entrate, ma costituisca davvero una componente fondamentale del rapporto tra azienda e lavoratore, rafforzando i reciproci processi fiduciari ed identitari.

Dal suo osservatorio com’è lo stato di salute della contrattazione aziendale legata al welfare? Lavoratori e sindacati sono sensibili al tema?

Nel caso della contrattazione di secondo livello, i motivi che l’avevano resa di grande attualità, come la sostanziale perdita di produttività del nostro sistema economico -produttivo sono ancora tutti presenti, quindi si tratta di mantenere l’obiettivo finale in presenza di una variabile in più. Variabile, pesante come un macigno, come la salute collettiva, che richiede un cambio di paradigma nelle relazioni industriali.

Dobbiamo impegnarci a migliorare la nostra efficienza produttiva, con un focus particolare non solo alla sicurezza in fabbrica, ma al più ampio concetto di salute in azienda e sul territorio. Gli strumenti tipici della contrattazione di secondo livello come il PdR ed i sistemi incentivanti in genere, devono essere aggiornati e declinati in un contesto che vede una precondizione di fondo: la salute dei lavoratori e di tutti gli operatori che ruotano attorno all’azienda, coinvolgendo anche il territorio in cui la stessa opera. L’azienda non è un’isola, non esistono muri o barriere per le emergenze come quella del coronavirus, l’azienda si salva e continua a produrre se si salvano i suoi lavoratori e le loro famiglie, viceversa rimane un deserto. La dimensione della salute, quindi travalica i confini aziendali e richiede un coinvolgimento più ampio di tutti i lavoratori e dei cosiddetti stakeholders. Le relazioni industriali, quindi , devono integrare maggiormente il concetto di partecipazione nel loro dna, e farlo diventare agire quotidiano. I numerosi Comitati Paritetici che si sono costituiti in questo periodo per affrontare l’emergenza ne sono una testimonianza. L’importante è che assumano una condizione strutturale e non rappresentino soltanto una risposta d’istinto al pericolo, ma che derivino da una convinzione precisa: non ci si salva da soli.

Quale ruolo potrebbe avere il terzo settore nei progetti di welfare aziendale?

Il Terzo Settore potrebbe avere un ruolo importante nel partecipare a creare un’offerta di servizi Welfare su misura per i singoli territori in cui operano le imprese. Le diverse organizzazioni del Terzo Settore originariamente già inserite in attività di welfare, devono compiere uno sforzo progettuale e di upgrade di competenze per predisporre servizi che incontrino la domanda proveniente dalle imprese e proporsi come interlocutori delle stesse per la realizzazione dei loro piani di Welfare. Chiaramente va avviato un percorso di dialogo costruttivo, nei diversi territori, tra Terzo Settore e mondo delle Imprese. Si tratta di uscire da una logica di intercettazione di finanziamenti “assistenziali”, per passare ad una logica di mercato che qualifichi gli operatori del Terzo Settore come protagonisti dell’offerta di servizi di welfare.

Come fare per coinvolgere le PMI nell’implementare progetti di welfare?

Le recenti statistiche del Ministero del Lavoro evidenziano come la diffusione dell’welfare aziendale nei contratti di secondo livello depositati, metta in luce due tipologie di dualismo principali: dimensionale e territoriale. Sono soprattutto le medio grandi imprese del Nord a implementare piani di welfare strutturati, le PMI si affidano a providers di piattaforme per un welfare più limitato sia nei contenuti che nelle dimensioni economiche. Quindi come fare per allargare al mondo delle PMI i vantaggi legati alle politiche di welfare aziendale, tenendo conto, tra l’altro, che il welfare si fa soprattutto in imprese in cui vi è una presenza sindacale strutturata e, notoriamente non è il caso delle PMI. La via passa attraverso il ruolo del territorio e dei suoi attori principali sul fronte della rappresentanza: le Associazioni Imprenditoriali e Sindacali territoriali, gli Enti Bilaterali. Esistono già accordi territoriali tra Associazioni datoriali e sindacati, ma devono essere spinte maggiormente da entrambi gli attori, emerge la necessità di un ruolo propulsivo più deciso che ruoti attorno al territorio ed ai suoi bisogni. Il mondo delle imprese, il terzo settore, le organizzazioni sindacali possono insieme costruire un welfare territoriale che può coinvolgere e”includere” un numero più ampio di PMI.

Quali competenze sono richieste oggi e domani al HR manager o al Welfare Manager?

Definire di quali competenze ci sia bisogno oggi e ancor più domani per il ruolo dell’HR manager non è cosa facile. Al di là delle dichiarazioni “alla moda” che informano i convegni, oggi webinar, di settore sulla base della mia esperienza penso che vi siano alcune precondizioni a temporali, che aiutano a definire un buon HR manager. Nella fattispecie si tratta di partire da alcune parole d’ordine , oggi definite anche soft skills,: rispetto, ascolto, accompagnamento, a cui aggiungere tecnicalità riguardanti misura, verifica. Lo scambio oggi tra impresa e lavoratore, o se vogliamo chiamarlo collaboratore, non passa più solo attraverso la retribuzione in danaro, ma attraverso passaggi che rafforzano il processo fiduciario bidirezionale. Percorsi formativi, passaggi di carriera, basati su atti concreti e certi. Pensiamo ad esempio allo smart-working e alla sua gestione, pensiamo ai Piani di Welfare che non solo vanno progettati, ma anche e soprattutto gestiti quotidianamente.

Quale ruolo potrebbe avere lo Stato per rinforzare il welfare aziendale?

Regole certe, poche e chiare. Le imprese ed i lavoratori non devono diventare fiscalisti o consulenti del lavoro, per capire la convenienza o meno di un piano di welfare aziendale. Le circolari dell’Agenzia delle Entrate non vanno scritte in gergo, vanno scritte per essere lette e capite anche dal lavoratore. Inoltre dato che parliamo di risorse della fiscalità generale, qualche attenzione in più al ruolo “sociale” dell’welfare aziendale andrebbe evidenziate con qualche forma di premialità aggiuntiva.

Lo sviluppo attuale del digitale ha avuto effetti sul welfare aziendale?

Indubbiamente la digitalizzazione dell’offerta di servizi welfare ha rappresentato un notevole contributo alla diffusione dell’welfare aziendale. Ma come ogni innovazione va tratta “cum granu salis”. Oggi i providers di servizi welfare operano attraverso piattaforme che sono a-territoriali, funzionano in pratica come aggregatori di offerta che può essere localizzata ovunque, soprattutto per i servizi più fruibili (fringe benefits), lo spazio diventa una variabile poco influente essendo la rete il tramite tra offerta e domanda. Ciò implica senz’altro una maggior possibilità di scelta per l’utente finale, ma il rischio è quello, da un lato, di rappresentare una barriera all’entrata per qualsiasi operatore locale che voglia costruire un welfare più legato al territorio, dall’altro lato di rappresentare una via “breve”che semplifica l’accesso ai servizi, ma che nello stesso tempo disintermedia qualsiasi azione di coinvolgimento, ad esempio delle rappresentanze sindacali.

Da dove bisogna partire per iniziare con un programma di welfare in azienda?

 In primo luogo, capire le motivazioni reali che inducono un’azienda ad avviare un piano di welfare aziendale. Quindi ipotizzare attraverso quali modalità attivare le risorse disponibili, welfare on top, welfare premiale, ….che devono avere una dimensione “interessante” .

Successivamente, in funzione delle dimensioni aziendali, un’analisi della popolazione lavorativa dell’azienda, quindi l’ascolto, cioè, un’indagine di dettaglio sui bisogni dei lavoratori accompagnata da una costante attività informativa-formativa che deve coinvolgere tutti i lavoratori. Sulla base dei risultati raggiunti, stendere un piano di Welfare che tenga conto delle modalità di attuazione e di gestione dello stesso

Formazione e informazione dei dipendenti: cosa fare?

 In questo periodo non c’è argomentazione che non comprenda il termine formazione.

Bene la formazione è importante, già nell’ultimo contratto dei metalmeccanici si stabilivano delle ore di formazione personale per ogni singolo lavoratore, quindi la formazione come diritto acquisito, ma purtroppo non utilizzato se non in minima parte.

La formazione, quindi non va affrontata in modo generico, come una “medicina” che devo prendere perché l’ha detto il dottore, bensì va costruita e ritagliata sulla base di obbiettivi precisi, sia personali che aziendali. Una formazione “mirata” a percorsi di upgrade personale, di aggiornamento aziendale, in altre parole una formazione che aggiunga valore in termini di competenze reali e spendibili sul mercato. E soprattutto una formazione che sia misurabile in termini di risultati finali, da definire prioritariamente, per capirne l’efficacia. Troppo spesso la formazione è autoreferenziale e utile solo ai formatori. Non serve una formazione “alla moda”, ma serve una formazione finalizzata a raggiungere risultati precisi, non episodica e improvvisata, ma inserita in piani organici aziendali e/o personali. Per quanto riguarda l’informazione ai lavoratori, ritengo non solo doveroso ma opportuno stabilire dei momenti precisi di comunicazione in cui si aggiorna il personale sugli andamenti aziendali: situazioni, problematiche, prospettive. Tale azione dovrebbe entrare nel dna di qualsiasi azienda.


Luciano Consolati - Progetta e gestisce da più di vent’anni sistemi incentivanti basati sul Premio di Risultato, per PMi e grandi aziende. Laureato al Politecnico di Milano, ha avuto una lunga esperienza come dirigente in società di servizi alle imprese e in Associazioni di Rappresentanza ( Confindustria, Confapi, Confartigianato) e’ Presidente di Metamananement srl, che realizza e gestisce Piani di Welfare sia volontari che contrattuali, fornendo un’assistenza e un accompagnamento completo in tutti gli stadi di attuazione. Partecipa in qualità di relatore a convegni e seminari specificamente dedicati alle tematiche del Welfare Aziendale, svolge attività di docenza per la progettazione di sistemi incentivanti e welfare aziendale per organizzazioni di rappresentanza e sindacali.

 

ALAIN AVAN

HR Manager - RRH - HR Business Partner

4 anni

In questo particolare momento, le aziende sono chiamate a fare del welfare una strategia a tutto campo. Una delle sfide più grande è la condizione dei tanti smartworker si sono trovati a dover conciliare vita professionale e vita privata in una condizione tutt’altro che ovvio. Non è lo stesso welfare, ma una sorta di welfare “di crisi”, già molte aziende hanno previsto soluzioni di assistenza sanitaria, misure per la cura dei figli, …

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