Impatto e prospettive per la difesa europea: il caso afghano

Impatto e prospettive per la difesa europea: il caso afghano

Le numerose crisi che hanno colpito in maniera più o meno diretta il Vecchio continente nei primi due decenni del XXI secolo, pur destabilizzando l’ordine mondiale, si sono rivelate un inatteso volano per il processo di integrazione europea, con tutto il suo portato di sfide e opportunità – soprattutto per la difesa comune.

L’impossibilità di gestire a livello esclusivamente nazionale fenomeni che travalicano l’idea stessa di confine fisico o politico, accompagnata dalla contestuale inadeguatezza delle attuali strutture unionali a sostituirsi tout court all’azione degli Stati – tendenzialmente refrattari a cedere maggiori quote di sovranità in settori sensibili come la sicurezza e la difesa – si è fatta pressante in questi ultimi anni, a partire dalla crisi migratoria libica, siriana, ucraina e, per quanto qui di interesse, afghana .

A causa della complessità della propria architettura istituzionale e agli stretti margini di negoziato intergovernativo al quale i Trattati rimettono il governo della politica estera, di sicurezza e di difesa comune – vincolando gran parte delle decisioni alla soglia dell’unanimità – sono evidenti le serie conseguenze in termini di prontezza operativa e ambizione strategica.

Opportunità e crisi: l’esperienza afghana

L’eterogeneità degli interessi in gioco e la complessità del coordinamento tra l’UE e la NATO, in mancanza di una strategia condivisa alla base dell’azione degli Stati europei e di una comune struttura operativa per implementarla, avrebbero condizionato l’esito stesso dell’intervento occidentale in Afghanistan. In altre parole: se l’UE «avesse voluto partecipare seriamente all’obiettivo del nation-building, influenzando l’alleato americano attraverso un contenuto più concreto a questo aspetto della presenza occidentale, avrebbe dovuto dare un contributo maggiore anche per la parte militare».

L’UE in effetti disponeva di strumenti normativi e capacità economiche per contribuire in maniera più importante allo sforzo complessivo, nonché delle potenziali risorse militari. Il constatare tali difficoltà ha però impresso nuovo slancio alla riflessione, ravvivando le progettualità e il dibattito in direzione di una maggiore integrazione nel campo della Difesa e rendendo impellente la necessità di snellire il processo decisionale dotando l’UE di adeguati strumenti operativi.

La difesa comune: sviluppi

L’art. 24, c. 1 del Trattato sull’Unione europea (TUE), come modificato dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009, attribuisce espressamente all’Unione la competenza per «la definizione progressiva di una politica di difesa comune che può condurre a una difesa comune». Su tale base giuridica, in questi ultimi anni si sono registrati diversi sviluppi degni di nota. Un primo esempio è stato l’ampliamento delle funzioni di comando (MPCC) – per ora limitata alle missioni non-executive, che già del 2018 aveva la responsabilità «to be ready also to plan and conduct one executive military operation of the size of an EU Battlegroup» . Un ulteriore esempio di questi processi di sviluppo è la conclusione, nel novembre 2020, del primo ciclo della Coordinated Annual Review on Defence (CARD), che ha individuato 55 opportunità di cooperazione ed evidenziato punti di forza e fragilità della difesa europea, tra cui una persistente «frammentazione» e «mancanza di coerenza» in alcuni settori – condizione che sembra confermata anche dai dati sulle spese militari raccolti dalla European Defence Agency (EDA): a fronte di un generale e costante aumento (198 miliardi di euro nel 2020), si evince una relativamente scarsa propensione agli investimenti collaborativi tra i 26 membri dell’Eda, soprattutto in ricerca e tecnologia .

Vi sono poi l’attivazione dello European Defence Fund (EDF) nel quadro finanziario pluriennale (QFP) 2021-2027, con una dotazione di quasi 8 miliardi di euro8 , e l’avvio della seconda fase iniziale (2021-2025) della Permanent Structured Cooperation (PESCO) – particolare forma di “cooperazione rafforzata” prevista già dal Trattato di Lisbona, ma costituita soltanto nel 20179 – che è stata aggiornata con una nuova tornata di progetti dal Consiglio UE del 16 novembre 202110.

Tra gli sviluppi più significativi spicca altresì l’approvazione della European Peace Facility (EPF) 11, entrata in vigore il 22 marzo 2021, che consente di finanziare, con fondi stanziati dagli Stati membri, «tutte le sue azioni esterne con implicazioni nel settore militare o della difesa» rientranti nella PESC (circa 5 miliardi di euro nel periodo 2021-2027)12. E infine, a compimento dell’ampia e diversificata serie di innovazioni messe in atto dall’UE, l’elaborazione di una vera e propria “cultura strategica” comune sulla base dello Strategic Compass, con lo scopo di promuovere una «clear political-strategic guidance on the EU approach to security and defence in the next 5 to 10 years, and to step up the EU’s role as global security provider».  

Strategic Compass, Europa e NATO

In tale contesto lo Strategic Compass, delineatosi nelle fasi finali della missione in Afghanistan, emerge come l’iniziativa al tempo stesso più promettente e problematica, data la difficoltà di sintetizzare in un solo documento interessi nazionali, spesso eterogenei. Sulla scia dell’esperienza afghana, gli esperti che hanno collaborato alla stesura dello Strategic Compass hanno optato per una difesa europea complementare alla NATO, che garantisca capacità di operare quale “security provider” ad ampio spettro e specializzi l’UE nei propri settori di maggiore interesse strategico. Lo Strategic Compass, concepito in sinergia con il nuovo NATO Strategic Concept, renderà potenzialmente operativi gli obiettivi e i mezzi a disposizione della EU Global Strategy, e quindi della politica, nella gestione delle crisi, nella resilienza, nelle capacità e nelle partnership.

Articolo di Laris Gaiser pubblicato dal CASD sul volume Afghanistan 2001-2021

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