“Io non posso cambiare il mio aspetto, ma noi insieme possiamo cambiare il nostro modo di pensare, e di vedere”
Leonardo Cardo (Verona 1958 – Milano 2024) è stato un attivista per i diritti dei disabili, scrittore e divulgatore. Era affetto da acondroplasia, una forma di nanismo. Dopo aver lavorato diversi anni nel settore assicurativo si era dedicato ad attività sociali: con il suo blog vitainclusiva.it, con un libro (“Nella nebbia delle emozioni – Vivere nel mondo”) e soprattutto facendosi promotore di attività di divulgazione e sensibilizzazione nelle scuole, nelle aziende, e con diverse associazioni.
“Io non posso cambiare il mio aspetto, ma noi insieme possiamo cambiare il nostro modo di pensare, e di vedere”
Sono nato a Legnago, in provincia di Verona, 65 anni fa. La mia famiglia era composta da mia madre, mio padre e i miei nonni materni. Sono figlio unico, i miei genitori avevano paura che se avessero avuto altri figli io avrei risentito di mancanza di attenzioni e affetto, anche se negli anni ho capito che non sarebbe stato così.
Fin da bambino la mia crescita fisica andava a rilento, i miei genitori se ne accorsero presto, ma stiamo parlando di sessant’anni fa, di un’epoca con una cultura molto differente rispetto a oggi e molte meno conoscenze mediche, soprattutto in merito alle malattie genetiche. Così trovarono spiegazioni diverse, nel tempo. Mio padre era alto 1,80m, mia madre invece era più piccola, intorno al 1,65m, e all’inizio prese corpo in famiglia – soprattutto in mia nonna – il pensiero latente che fosse “colpa” sua se non crescevo: arrivarono anche a dirle che non era stata in grado di dare alla luce un figlio “normale”. Passarono poi all’ipotesi che le mie problematiche derivassero da un errore medico. Sessant’anni fa in Italia l’acondroplasia non veniva considerata una malattia, ma una sindrome derivante dall’errore di medici che non avevano saputo curare efficacemente il rachitismo.
Primi passi, in una bolla di vetro
Quando compii due anni la mia famiglia si trasferì in Brianza. I miei genitori, che lavoravano, decisero di iscrivermi ad una scuola dell’infanzia della zona, un asilo gestito da un ordine religioso. La suora direttrice, quando mi vide, disse senza troppa delicatezza che non mi avrebbero potuto accettare perché avrei spaventato gli altri bambini. Una volta queste reazioni venivano considerate normali … oggi ce ne dimentichiamo, perché per fortuna abbiamo fatto enormi passi avanti e considereremmo inaccettabile una risposta del genere, ma raccontarle serve come monito per ricordarci che di strada da fare, verso una vera integrazione, ce n’è ancora molta – anche quando non ce ne accorgiamo. In conseguenza a questo rifiuto, dovetti passare i miei primi anni a casa con mia nonna, tutto il giorno con lei, con pochissimi contatti con l’esterno, e tra l’altro immerso in un’atmosfera familiare che si andava deteriorando e di cui io, nonostante l’età, indirettamente risentivo, diventando sempre più intimidito dal mondo e chiuso in me stesso. Le poche uscite non miglioravano la situazione: le mie problematiche, unite al fatto che fossi figlio unico, fecero sì che la mia infanzia si svolgesse in una bolla di iperprotezione anche fuori casa. I miei genitori riversavano su di me tutte le loro attenzioni e preoccupazioni: non giocare a pallone con gli altri bambini perché rischi di farti male, non correre perché se cadi dobbiamo andare dal dottore, … Tutte queste attenzioni sicuramente non mi hanno aiutato: ogni bambino ha bisogno di fare esperienze, anche negative, per imparare a rapportarsi con gli altri e costruire la propria autonomia.
Il pregiudizio nasconde il talento
A 6 anni raggiunsi l’età per essere iscritto alle elementari. Di nuovo, mi scontrai con un pregiudizio della società: il tuo aspetto può influenzare le tue capacità, viene giudicato per primo. Prima ancora solo di provare a fare un colloquio con me venni sottoposto ad un test per capire se assegnarmi a una scuola per bambini normodotati o a una per “subnormali”, come venivano definiti allora i minori con disabilità intellettive. Teniamo conto che io a 6 anni sapevo già leggere e scrivere, dal momento che mia nonna, nelle lunghe giornate passate a casa insieme, mi aveva spinto con insistenza a imparare e sperimentare cose nuove, per “portarmi un passo avanti”, come diceva lei. Di fatto, quindi, ero già più formato rispetto alla maggioranza dei bambini che iniziano una scuola elementare. In ogni caso, venni sottoposto al test: ero in una stanza isolata insieme a una psicologa, che compose di fronte a me una collana utilizzando cubi e sfere di diverso colore, e poi mi chiese di ricrearla. Lì per lì – ero piccolo - non realizzai l’assurdità di quel test, ma ripensandoci negli anni successivi mi resi conto con rabbia della totale parzialità e inefficienza di quei metodi di valutazione, e ho ripensato a quanti bambini è stata negata un’istruzione “classica” per pregiudizio e ignoranza.
L’atmosfera protettiva mi circondò anche nel percorso scolastico. Gli insegnanti erano molto attenti che nessuno mi mancasse di rispetto, e con i compagni non ebbi mai particolari problemi, non ricordo alcun episodio di bullismo, anche se non mi sentivo particolarmente integrato. Se da una parte questa situazione mi fece crescere sereno, non mi preparò però a capire che, quando sarei uscito nel mondo “vero”, le cose non sarebbero andate sempre in questo modo.
Conoscenza, dolore, accettazione…
Il mio percorso evolutivo continuava a essere monitorato dai medici. Quando arrivai ai 12 anni, finalmente, incontrammo uno specialista che ci spiegò che la mia condizione derivava ma una malattia genetica, l’acondroplasia appunto, che dipendeva dalla mutazione di un genoma. Mutazione che avviene in un caso su 35.000 e si manifesta in un bambino ogni 20.000. E’ una forma di nanismo che si differenzia dal più comune nanismo ipofisario, che invece è dovuto a un deficit, durante l’infanzia, del cosiddetto “ormone della crescita”, un ormone prodotto dall'ipofisi che stimola la crescita delle ossa e la sintesi proteica. In quei casi, a differenza del mio, le proporzioni del corpo sono quelle di una persona normale ed è in molti casi risolvibile, se preso in tempo e trattato con specifiche terapie (basti pensare a Leo Messi). A differenza del mio, inoltre, non è un fattore genetico: quando, una volta adulto, feci degli esami per capire l’ereditarietà e l’eventualità di trasmissione del gene dell’acondroplasia, scoprii che avrei avuto il 50% di possibilità di avere un figlio con la stessa malattia. Una scoperta che mi fece riflettere, e influenzò le mie scelte in merito al formare una famiglia.
La mia adolescenza arrivò tardivamente, ero già alle superiori da qualche anno. Negli anni ’70 eravamo più pudichi, c’era più reticenza a parlare e condividere sentimenti. Come tutti i miei compagni iniziai a prendermi le prime cotte per qualche ragazza. Mi dichiaravo senza problemi, e puntualmente venivo rifiutato, soffrendone, non capendo il perché. Un giorno decisi di confidarmi con un prete – allora ci rivolgevamo alla Chiesa anche per problemi di cuore, parlarne con i genitori era impensabile – che mi disse “Perché non ti trovi una ragazza con le tue condizioni?”. Io rimasi perplesso, sentii che il mio corpo veniva etichettato perché fuori dai canoni. Era come se mi avesse detto che l’amore si misura a metri. Che i simili devono stare con i propri simili.
Quella risposta arrivò in un periodo in cui faticavo ad accettare il mio corpo, non mi piacevo, e per di più non avevo mai incontrato nessun’altra persona affetta dalla mia stessa malattia. Per quanto lavorassi sull’accettazione di me stesso, vivevo in una comunità in cui lo stigma e i pregiudizi verso le persone con la mia patologia erano più accentuati rispetto a oggi. La storia e la cultura popolare non aiutavano: se si pensa alle persone affette da nanismo vengono in mente i giullari, i clown del circo, i nani di Biancaneve … siamo stati derisi, emarginati, raccontati come creature diverse per centinaia di anni. Certo, la società stava maturando, ma non ancora da permettermi di sentirmi completamente libero di scegliere il mio futuro, di scardinare una convinzione diffusa che mi vedeva incasellato in una categoria con possibilità di percorsi di vita limitati.
…e alla fine, il coraggio
Oggi le prospettive di un bambino affetto da una disabilità sono sicuramente differenti rispetto a quando ero piccolo io. La medicina ha fatto passi da giganti e nella società c’è maggiore conoscenza e consapevolezza, anche grazie ai social. Tuttavia ci sono segnali che indicano che la strada per arrivare a una vera inclusione è ancora lunga: basti pensare che tuttora ci stupiamo quando una persona con una forma di disabilità ha successo in qualche campo, ad esempio nello sport o nel lavoro…
Consigliati da LinkedIn
Ho sempre lottato perché nel mondo del lavoro i miei talenti venissero valorizzati. Nel marzo 1999 – avevo quasi 30 anni e cercavo un impiego - la Legge n° 68 impose a tutti i datori di lavoro, pubblici e privati, con più di 15 dipendenti, di riservare una quota delle proprie assunzioni a soggetti con disabilità. Qualche settimana dopo mi arrivò a casa una lettera da un’importante società italiana operante nel mondo dell’informatica, che mi convocava per un colloquio. Mi presentai al cospetto del capo del personale e del Direttore Generale, che mi fecero capire che erano stati spinti ad offrirmi un colloquio ma che non avevano intenzione di assumermi, non per mancanza di competenze (avevo studiato all’università informatica ed elettronica) ma perché non erano intenzionati inserire in organico una persona con la mia disabilità. Mi sentii vittima di un’ingiustizia, di nuovo pensai a quante altre persone in quel momento si stavano ritrovando in una situazione come la mia. Perciò mi rivolsi ad un’associazione che mi fornì un avvocato pro bono, grazie al quale riuscii ad ottenere quel posto. Superfluo dire che l’accoglienza non fu delle migliori: per 6 anni lavorai alacremente e non ebbi alcun riconoscimento, e quando provai a chiederlo mi sentii rispondere “E’ già tanto che sei qui, dovresti ringraziarci”. Nel frattempo, per evadere da un’atmosfera che non mi faceva sentire valorizzato, cominciai a lavorare sporadicamente come consulente esterno per altre aziende. Un mio contatto, che divenne nel tempo un amico, mi cercava in continuazione e un giorno, scherzando, gli dissi “E’ la decima volta che mi chiami in questi giorni, quasi quasi mi faccio assumere da voi!”. Qualche settimana dopo, mentre ero nella sua azienda per l’ennesimo consulto, a sorpresa l’Amministratore Delegato mi convocò nel suo ufficio e mi fece una formale proposta di lavoro, praticamente raddoppiando quello che era il mio stipendio corrente … inutile dire che non ci pensai un attimo. Accettati, e finalmente potei esprimermi in un contesto in cui il mio valore veniva riconosciuto, e ne ebbi importanti soddisfazioni.
Il dolce amaro dell’amare
In quegli anni mi concentrai sul lavoro. Avevo inanellato una serie di disavventure sentimentali che mi avevano fatto soffrire e mi avevano spinto a rifiutare qualsiasi approccio. Tutte le storie che avevo avuto erano durate poco e finite male, capitava addirittura che alcune donne mi avvicinassero solo per curiosità, per capire come ero fatto … troppe delusioni. Un giorno, al centralino dell’ufficio della mia azienda, incontrai una donna con cui iniziai spontaneamente a chiacchierare. Mi raccontò soffriva di poliomielite, che si era appena lasciata con il suo compagno e che anche lei era stanca di storie sentimentali ripetutamente finite con una delusione. Senza troppe aspettative cominciammo a frequentarci fuori dal lavoro, un caffè, un cinema … quando conobbi la sua famiglia ci fu un’iniziale resistenza nei miei confronti, derivante in parte da pregiudizi e poca conoscenza della mia patologia e in parte al naturale timore che tutti i genitori hanno verso chi potrebbe ferire la propria figlia. Ci volle un po' di tempo, ma alla fine mi accolsero. Dopo pochi mesi quella ragazza divenne mia moglie.
L’inizio di una bellissima avventura, una famiglia mia. La nostra serenità durò purtroppo pochi mesi. Come accade nella vita di tanti, arrivarono momenti difficili. Per diversi anni mi sono ritrovato a dover fare il caregiver, prima per mio padre che venne colpito da un ictus un anno dopo il mio matrimonio, poi per mia madre, e infine per mia suocera. Mi dedicai alla cura con tutto me stesso. Essendo stato trattato con differenza per tutta la vita, in ogni ambito – lavorativo, familiare, sociale – mi sforzavo continuamente di dimostrare che valevo di più, che potevo dare di più.
Anche chi è fragile può essere fragile. Per diventare ancora più forte.
Ad un certo punto, però, non ce l’ho più fatta. Avevo tutto quello che volevo, ma non riuscivo ad essere felice. Attraversai un pesante periodo di depressione, soffrivo di attacchi di panico, non riuscivo più a uscire di casa né ad interagire con gli altri. Ne uscii grazie ad un percorso psicologico, lungo e faticoso, da cui emersi con un nuovo obiettivo: essere uno stimolo per gli altri, riuscire a trasmettere a chi è in una situazione di difficoltà il messaggio che se ce l’ho fatta io, ce la può fare anche lui.
Lottare per gli altri e cercare di cambiare le cose attraverso l’impegno sociale e politico divenne la mia missione, soprattutto quando riuscii a uscire definitivamente dal mio periodo buio ed ebbi la possibilità di andare in pensione, avendo quindi più tempo. Uno dei miei motti è “Io non posso cambiare il mio aspetto, ma noi insieme possiamo cambiare il nostro modo di pensare, e di vedere”. E’ anche la frase che inaugurò il mio blog vitainclusiva.it, nato nel 2019, in cui racconto la mia storia, le iniziative che organizzo per diffondere quella che io definisco “happy inclusion”, gli incontri nelle scuole, gli appuntamenti di divulgazione, le azioni che intraprendiamo per diminuire le difficoltà e le ingiustizie burocratiche e normative che ancora ostacolano la serenità di chi convive con una qualche forma di disabilità. Molte le racconto e le commento su Linkedin, cogliendo spunti da episodi che purtroppo sono ancora quotidiani. So per esperienza personale, ad esempio, cosa vuol dire prendersi cura di persone non autosufficienti, di quanto impegno emotivo, fisico ed economico questo richieda, e anche per questo sono così sensibile alle decisioni politiche e normative che, a mio parere, da anni non fanno abbastanza per supportare le persone disabili e le loro famiglie. Qualche mese fa una delibera della Regione Lombardia [delibera 1669 del 1° giugno 2024] ha previsto una riduzione dei contributi ai caregiver familiari per l’assistenza domiciliare, in attuazione della normativa nazionale del Piano per le non autosufficienze. Dopo una mobilitazione delle associazioni di categoria e delle famiglie, mobilitazione di cui mi sono fatto parte attiva, questi tagli sono stati ridotti, anche se parliamo comunque di poche risorse rispetto a quelle che servirebbero.
“…e se fosse successo a te?”
Spero sempre che tutto ciò che faccio aiuti a portare consapevolezza e a costruire un futuro migliore. Se una volta mi chiedevo “Perché è successo proprio a me?”, ora la domanda che mi pongo è “Perché non usare la mia esperienza per far capire che i pregiudizi possono renderci ciechi e non farci vedere ricchezze e talenti?”. Con gioia posso dire che il riscontro spesso è positivo: quando vado nelle scuole e nelle aziende vedo occhi pieni di curiosità più che diffidenza, riscontro in chi mi circonda attenzione e apertura nell’ascoltare un uomo non più alto del normale che riesce ad empatizzare con loro e a far comprendere come ciò che consideriamo “diverso” in realtà è già parte integrante della nostra vita. Proprio perché la nostra quotidianità è già piena di diversità, ci sono piccoli gesti quotidiani che ognuno di noi può fare per rendere la nostra società più inclusiva. Sono attenzioni banali … non posteggiare sulle fermate degli autobus o sui marciapiedi, perché una persona in carrozzina o un non vedente non riesce più a muoversi agevolmente o a orientarsi, oppure togliere lo zaino quando si sale sui mezzi, sembra una stupidata, ma se capiti davanti a una persona come me o più banalmente un bambino diventi un impedimento! Queste sono tutte regole che esistono già, ma per poca attenzione di frequente non le rispettiamo … ecco, pensiamoci un po' più spesso. Ci sono altri impedimenti fisici che invece richiederebbero un ripensamento di alcuni ambienti comuni, per renderli più fruibili a tutti. Un esempio: la disposizione della merce negli scaffali del supermercato, che in Italia avviene esclusivamente in orizzontale, il che rende molti prodotti irraggiungibili da una persona piccola o in carrozzina. Stesso discorso per i tavolini e i banconi del bar … sono tutti alti, perché non metterne qualcuno di più basso e raggiungibile anche per le persone come me? Sono forme nascoste di discriminazione, a volte basterebbe davvero un briciolo di inventiva in più per risolverle e non farci sentire in difficoltà.
La potenza inclusiva dell’ironia
Uno strumento potente per normalizzare le diversità e integrarle pienamente nella nostra società credo sia quello dell’ironia. Ricordo ancora quando, in prima media, sono andato con la mia classe e gli insegnanti al cinema. Uno di loro, preoccupato che non vedessi lo schermo, mise il proprio cappotto sopra il mio sedile, per alzare la mia visuale … finì che lo spettatore dietro di me si lamentò con la mia insegnante perché non vedeva nulla, ero diventato troppo alto (!). Quando si accorse delle mie condizioni, dopo un momento di imbarazzo, scoppiò a ridere con noi. L’autoironia è uno strumento che utilizzo poi spesso con i bambini. Per spiegare la mia malattia racconto “Avete presente i bassotti, che hanno il busto lungo lungo e le gambe corte corte? Ecco, io ho quella patologia lì, la patologia del bassotto!”. Ovviamente, il presupposto dell’ironia è sempre una base totalmente priva di bias e pregiudizi, fondante su un profondo rispetto e il riconoscimento che siamo tutti alla pari, nell’essere diversi.
Global Dei Sustainability Advisor, Board Member, Author, Professor and Journalist. Anchor woman. Illycaffe’ controlling company shareholder RAA.
1 settimanaMi mancherai. E anche al mondo. Ti voglio bene.