La gloriosa e intoccabile tradizione culinaria italiana
In questi giorni di isolamento casalingo, giocoforza mi capita più spesso di affidarmi alla TV durante i momenti di noia. Grazie a questo mi sono reso conto (benvenuto al mondo, direte voi) che i programmi a tema cucina imperversano davvero a qualsiasi ora del giorno e della notte: tra 4 Ristoranti e tutti i suoi figli e discendenti c'è sempre qualche chef o pasticcere che sfida sul campo alcuni colleghi. Tra tutti questi confronti, ho avuto modo di notare che c'è un aspetto che torna continuamente e prepotentemente, in maniera molto trasversale indipendentemente dalla fascia di età, tipologia di ristorante o locazione geografica. Sarebbe la celebratissima tradizione culinaria, italiana in primis e poi declinata nelle accezioni regionali o anche più locali. Questa "tradizione" a volte crea delle scene ai limiti del grottesco, nelle quali ristoratori o avventori si accusano a vicenda o di non rispettare la tradizione (quando qualcuno si è permesso di fare qualche modifica), oppure di non saperla innovare (quando ci si è attenuti strettamente). Aleggia su tutto lo spettro della tradizione, che tutti sfoderano con grande orgoglio ma solo nell'accezione che a loro fa più comodo. Vi ci si appella come fossero le tavole della legge, ma la si sfrutta opportunisticamente e pretestuosamente come un mezzuccio per pretendere di far assurgere le proprie soggettive interpretazioni a verità universale, e conseguentemente per evidenziale le manchevolezze degli avversari in base ad esse.
Il fondamentalismo culinario sta vivendo un periodo di approvazione abbastanza trasversale: vuoi perché in Italia effettivamente si mangia bene, vuoi perché la cucina italiana è celebrata in tutto il mondo, vuoi perché di cucina in realtà ci capiamo poco ma ci attacchiamo a questa come un feticcio, chiunque provi solo a suggerire che la cipolla sta bene nell'amatriciana viene unanimamente condannato come un traditore della patria e gettato dalla Rupe Tarpea.
In effetti, la "tradizione" si presta molto bene ad atteggiamenti di questo tipo. Questa sua origine mitica, i suoi contenuti che sarebbero stati inventati dai nostri avi e poi consolidati nel corso delle generazioni, offrono la sicurezza di un qualcosa che è stato perfezionato secoli orsono e in virtù di tale perfezione è rimasto immutato, qualcosa a cui possiamo associare con orgoglio anche la nostra identità. Così, identificando la nostra storia di popolo con essa, abbiamo buon gioco ad avversare chiunque la neghi, perché starebbe negando anche un pezzo di noi. Parte del palco però crolla quando si va a collocare realmente nel tempo gli usi e costumi della cosiddetta tradizione, rendendosi conto che in realtà non sono vecchi nemmeno la metà di quello che pensavamo. Ad esempio, il kilt scozzese, che tutti immaginano un indumento medievale, è in realtà un'invenzione del XVIII secolo.
Mi sembra allora utile andare a riprendere questi grandi capisaldi della cucina italiana, rigorosamente codificati nella nostra tradizione, e vedere storicamente quando sono nati, sperando in questo modo di far prendere una misura un po' più realistica rispetto a quanto realmente la tradizione affonda le sue radici nella storia, senza nulla togliere alla loro indiscussa bontà.
La pasta alla carbonara
Quando andavo ancora a scuola associavo questa ricetta ai Carbonari, chiedendomi peraltro come mai questi rivoluzionari fossero così dediti alla pasta invece di pensare all'unità nazionale. È anche una delle ricette la cui sacralità si trova più spesso offesa. Vorrebbe pochi e precisi ingredienti: pasta, uovo (con più tuorlo che albume), guanciale, pepe, pecorino. Invece ci si infilano pancetta, grana o altri formaggi, e addirittura (sacrilegio!) panna. Sorprendentemente, in Italia abbiamo diverse persone viventi che sono nate in un periodo in cui la carbonara non esisteva. Faccio riferimento soprattutto a un articolo del Gambero Rosso, che è il più accurato rispetto ad altri a citare le fonti. A quanto pare la pasta alla carbonara sarebbe da far risalire a non prima del secondo dopoguerra, frutto di una contaminazione in quel di Roma tra le ricette locali e i desideri di pasta col bacon dei soldati americani. Tanto che il primo ricettario in cui la ricetta è reperibile è americano, e non italiano, negli anni '50. Nel corso del tempo la ricetta si è affinata, comprendendo di volta in volta dosi diverse di parmigiano, pancetta e anche addirittura panna, fino alla versione definitiva che conosciamo oggi degli anni '90. La gloriosa carbonara, nella sua versione da puristi con solo guanciale e pecorino, non ha nemmeno 30 anni.
La cotoletta alla milanese
Ancora una volta, la fonte migliore che ho reperito è sempre il sito del Gambero Rosso. Sta al centro di una lunga disputa tra Milano e Vienna per la sua paternità, ma i documenti storici pare diano ragione a noi italiani, in quanto la prima menzione del piatto è antecedente di qualche decina di anni rispetto alla corrispondente tedesca. Inoltre, le due versioni originariamente sono abbastanza differenziate: la milanese è rigorosamente di vitello con l'osso cotto nel burro chiarificato, quella viennese di maiale cotto nello strutto. La nascita di questo piatto di può collocare con abbastanza precisione nella prima metà del XIX secolo. È un'invenzione dell'ottocento, precedente di poco l'Unità d'Italia, tanto che anche il Maresciallo Radetzky ne era ghiotto. Siamo quindi sulla soglia dei 200 anni per questa ricetta.
La pizza
Accidenti, qui andiamo a toccare uno dei mostri sacri della cucina italiana. La storia è apparentemente chiara così pure come la paternità: interamente dei napoletani, che hanno reinventato la focaccia provando diverse combinazioni di ingredienti fino ad arrivare alla seguenza pomodoro - mozzarella - basilico. La leggenda vuole che la pizza Margherita sia stata inventata dal pizzaiolo Raffaele Esposito nel 1889 in onore della regina Margherita di Savoia, ma pare che la ricetta esistesse già da qualche anno e l'Esposito abbia sfruttato l'occasione per immortalare il suo nome nella storia gastronomica del paese. La diffusione di questo piatto non è stata immediata, tanto che nel 1905 la parola "pizza" è considerato un neologismo nella lingua italiana, ed è arrivata nel nord del paese soltanto nel secondo dopoguerra. Però, se di pizza verace si parla, bisogna puntualizzare che quasi nessuno al di fuori di Napoli mangia la vera pizza, tantomeno i milioni di turisti che ogni anno arrivano in Italia per gustare la pizza italiana. Come l'Associazione Verace Pizza Napolatana (fondata nel 1984) sottolinea, per fare la pizza Napoletana originale, che può essere solo Margherita o Marinara, serve seguire una ricetta ben precisa che impone tra le altre cose un forno estremamente caldo. Così si ottiene una pizza con la crosta (o cornicione, come dicono quelli che ne sanno) alta, e la tipica fragranza che solo le pizze napoletane hanno. Ma la pizza che più si mangia nelle pizzerie italiane si rifà piuttosto allo stile "romano", ed è una versione nata alla metà del XX secolo. Di fatto, va dato merito ai pizzaioni napoletani di aver creato una base estremamente versatile, che è stata poi modificata in un sacco di versioni diverse e riadattata con estremo successo in tutto il mondo. Siamo sicuri allora che abbia senso focalizzarsi tanto sull'aderenza all'originale di un piatto che ha fatto della versatilità il suo punto di forza?
Il pandoro
Il pandoro nacque a Verona sul finir alla fine del XIX secolo e ha una genesi che si potrebbe definire "industriale", visto che la sua invenzione viene sancita da un brevetto depositato da Domenico Melegatti nel 1984 e passa per un forno speciale ideato dallo stesso Melegatti apposta per questo dolce. Il pandoro trae origine dal nadalin, un altro dolce veronese tipico di Natale che affonda le sui radici ben più indietro nei secoli. Dall'invenzione di Melegatti, il pandoro si è guadagnato, in una eterna contesa con il panettone, il titolo di dolce di Natale per eccellenza, prima in Italia e negli ultimi anni anche all'estero.
Quindi, a quando risale la tradizione culinaria italiana?
Indubbiamente, esiste una continua evoluzione delle ricette che è iniziata diversi secoli se non millenni orsono. Però, la base dei piatti che conosciamo oggi è molto più recente: spesso risale al più tardi all'800, quando non è addirittura più recente. Un altro dolce famosissimo, il tiramisù, è stato inventato negli anni '70, e si possono trovare moltissimi altri esempi di pietanze che hanno trovato la loro ricetta definitiva non più di 50 anni fa. Sono per questo meno buoni o genuini? Per niente. Il motivo per il quale la cucina italiana è apprezzata nel mondo non è la sua storicità, tanto che nel periodo in cui questa si è diffusa all'estero (seconda metà del '900) della "tradizione" non importava a nessuno. I piatti italiani erano semplicemente buoni, e per questo sono stati apprezzati a livello mondiale. Poi siamo noi italiani, che sull'onda dell'apprezzamento estero ci siamo inorgogliti e abbiamo caricato sulla nostra gastronomia anche un'accezione di "identità", talvolta inappropriata considerato che al momento dell'Unità della maggior parte di questi piatti non esistevano che i progenitori. Tanti, addirittura, non esistevano nemmeno quando sono nati i nostri nonni. Prendere coscienza che la "tradizione" culinaria italiana non è in realtà così tradizionale come creiamo dovrebbe spingerci anche ad apprezzare il valore della nostra cucina per quello che è: eccezionalmente buona e di qualità, e da celebrare unicamente per la sua sostanza e non in quanto tradizionale. Anzi, ridimensionare la portata dell'aspetto tradizionale fa apprezzare come i nostri piatti di oggi siano il risultato di un continuo susseguirsi di modifiche e contaminazioni, avvenute sempre in barba a qualsiasi tradizione che avrebbe condannato le antiche ricette all'eterna immutabilità. La cucina italiana è diventata celebre del mondo perché ha saputo prendere il meglio delle diverse tradizioni regionali, migliorandole senza sosta e senza mai congelarle nel tempo. Rifugiarsi nella sicurezza della tradizione è negare le stesse origini della nostra cucina, e al contempo relegarla all'obsolescenza per i decenni a venire.