La lezione di Ibn Battuta

La lezione di Ibn Battuta

Ibn Battuta, arabo marocchino, è uno dei più grandi viaggiatori della Storia: in quasi trent’anni, dal 1325 al 1354, girò per mezzo mondo, dal Nord Africa fino in Cina, percorrendo il sudest europeo, il Medio Oriente, il centro e il sudest asiatico, la Russia, l'India, il Kurdistan, il Madagascar, Zanzibar, Ceylon o, in Occidente, i regni di Aragona e Granada e del Mali, che avrebbe visitato in viaggi successivi. In totale percorse più di 120.000 chilometri.

Iniziò le sue peregrinazioni nel 1325, a ventuno anni, partendo dalla sua città natale e dirigendosi in pellegrinaggio (ḥaǧǧ) alla Mecca. Così racconta la sua decisione

Partii solo, senza un amico che mi allietasse con la sua compagnia e senza far parte di una carovana, ma ero spinto da uno spirito risoluto e sottacevo in cuore lo struggente desiderio di visitare quei Nobili Santuari. Così mi decisi ad abbandonare coloro che - donne e uomini - amavo e lasciai il mio paese siccome un uccello s'invola dal nido. I miei genitori erano ancora in vita e soffrii molto a separarmene: sia io che loro ne provammo una gran pena.

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Quando iniziò a viaggiare le navi aragonesi, veneziane e genovesi controllavano il Mediterraneo, ma durante i suoi andirivieni calpestò suolo cristiano solo in Sardegna, che apparteneva alla Corona di Aragona, e a Costantinopoli, la capitale dell’Impero bizantino.

La sosta sull'isola non fu delle migliori: Ibn Battuta comincia la sua descrizione parlando

Un’isola cristiana dotata di un porto straordinario, tutto circondato da grandi travi in legno e con un’entrata simile a una porta che viene aperta solo quando se ne dà il permesso

il che fa pensare che la nave aragonese su cui si era imbarcato avesse attraccato a Cagliari, cosa che è confermata da un altro dettaglio

Sull’isola sorgevano diverse fortezze ed entrati in una di queste vedemmo che ospitava diversi mercati

Ma a questo punto della descrizione, Ibn Battuta, rivela la sua preoccupazione, dato che la Sardegna Aragonese era uno principali mercati mediterranei degli schiavi di origine musulmana e di certo, il viaggiatore non voleva finire in catene

Io feci voto all’Altissimo che avrei digiunato per due mesi consecutivi se ci avesse fatti ripartire sani e salvi, perché avevamo saputo che gli abitanti dell’isola avevano intenzione di inseguirci non appena fossimo usciti, per farci prigionieri. Comunque ne venimmo fuori vivi e dopo dieci giorni giungemmo a Tanas.

Ben diversa è la descrizione di Costantinopoli

Costantinopoli, di una grandezza sterminata, è divisa in due parti fra le quali scorre un maestoso fiume, l’Absumi, dove la marea si fa sentire, come succede con il fiume di Salè, in Marocco. Un tempo c’era un ponte in muratura, ma poi è andato distrutto e ora il fiume si attraversa solo in barca. Una delle due parti della città, Istanbul (Astanbul), sorge sulla sponda orientale del fiume e ospita le residenze del sovrano, dei grandi dignitari e del resto della gente. Strade e mercati, ampi e lastricati in pietra, comprendono quartieri separati per ogni gilda e sono muniti di porte che la notte vengono tenute chiuse – artigiani e venditori, fra l’altro, sono quasi tutte donne. Questa parte della città, con al centro la basilica, si trova a piè di un monte che si protende nel mare per circa nove miglia ed è largo altrettanto se non di più: in cima vi hanno sede una piccola roccaforte e il palazzo del sovrano, e intorno scorrono le mura, ben fortificate e inaccessibili a chiunque dalla parte del mare, che racchiudono all’interno circa tredici borghi abitati

Quanto alla seconda parte della città, Galata (al-Ghalata), sorge sulla riva occidentale del fiume, tanto vicina al corso d’acqua quanto lo è Rabat al suo fiume (il Bou Regreg), ed è riservata alle abitazioni dei cristiani d’Occidente, che di svariata provenienza – genovesi, veneziani, romani e franchi – sono tutti sotto la giurisdizione del sovrano di Costantinopoli. Questi nomina suo luogotenente uno di loro che sia gradito agli altri – il cosiddetto qumis – e impone loro un tributo annuale, ma a volte capita che gli si rivoltino contro e allora il sovrano li combatte finché il Papa non interviene a ristabilire la pace. Lavorano tutti nel commercio e hanno un porto fra i più grandi al mondo: vi ho personalmente visto un centinaio di navi simili alle galere e altre di pari grandezza, oltre a un numero incalcolabile di barche più piccole. Quanto ai mercati, sono belli ma pieni di immondizie e attraversati da un rigagnolo d’acqua sporca lurida – anche le chiese, del resto, a Galata sono sporche e non hanno nulla d’interessante

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Lo colpì invece molto Santa Sofia

Descriverò solo l’esterno, perché dentro non l’ho vista. La chiamano Aya Sufiya e dicono sia stata costruita da Asaf ibn Barakhya, figlio della zia materna di Salomone. Fornita di tredici porte e circondata da mura come una città, è una delle più grandi chiese bizantine e comprende un sagrato lungo circa un miglio, con un enorme portone che tutti possono varcare – e infatti anch’io ci sono entrato insieme al padre del sovrano, di cui parlerò oltre. Questo sagrato, dunque, sembra una sala delle udienze: lastricato in marmo, è attraversato da un rivo d’acqua che, uscendo dalla chiesa, scorre fra due argini alti circa un cubito, di marmo venato e tagliato in modo splendido. Sulle sponde del rivo crescono alberi ben allineati l’uno all’altro e dalla porta della cinta a quella della chiesa si stende un alto pergolato in legno su cui si abbarbicano le viti, mentre in basso crescono gelsomini e piante aromatiche. Fuori dalla porta della cinta, invece, sorge un grande padiglione con delle tavole anch’esse in legno su cui stan seduti gli addetti alla porta, e a destra del padiglione si trovano panche e gabbiotti, per lo più sempre in legno, dove stanno seduti i qadi e gli scribi della cancelleria. In mezzo ai gabbiotti si erge poi un altro padiglione ligneo a cui si accede per mezzo di una scaletta in legno: vi è sito un grande scanno rivestito da un drappo su cui si siede il loro (gran) qadi, ma di costui parleremo oltre. Il rivo di cui sopra, infine, si biforca in due rami: uno attraversa, a sinistra del primo padiglione, il mercato degli speziali, mentre l’altro passa colà ove stanno i qadi e gli scribi.

Quanto agli inservienti, occupano una serie di portici all’entrata della chiesa e, oltre a spazzare il pavimento, accendere le lampade e chiudere le porte, devono lasciare entrare solo chi si prosterna davanti a un’enorme croce ritenuta la reliquia di quella su cui fu crocifisso il sosia di Gesù. Questa croce, custodita in una teca d’oro lunga una decina di cubiti con sopra un’altra identica, sistemata di traverso, è posta sulla porta che, ricoperta di lamine d’argento e d’oro, è munita di due picchiotti d’oro puro. A quanto mi hanno detto, questa chiesa ospita diverse migliaia di monaci e di preti – fra cui alcuni discendenti degli Apostoli – e racchiude al suo interno un’altra chiesa riservata alle donne, abitata da oltre mille vergini consacrate al servizio di Dio – e ben più numerose donne non più giovanissime.

Il sovrano, i grandi dignitari del regno e il resto della gente vengono a visitare questa chiesa ogni mattina, e il Papa ci viene una volta all’anno: quando è a quattro giorni di cammino dalla città il re gli va incontro, smonta da cavallo in segno di rispetto ed entra a Costantinopoli precedendolo a piedi – poi, fintanto che il Papa resta in città, cioè fino a quando parte, va a rendergli omaggio tutti i giorni al mattino e alla sera

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Altrettanto interessante è la descrizione che da del palazzo imperiale delle Blacherne

Il sovrano di Costantinopoli, Takfur, è figlio del sovrano Jirjis (Giorgio), che pur essendo in vita ha rinunziato al mondo e si è fatto monaco, consacrandosi ad adorare Dio nelle chiese e lasciando il regno al figlio – ma di lui riparleremo in seguito.

Eravamo arrivati a Costantinopoli da quattro giorni quando la khatun mi mandò l’eunuco Sunbul al-Hindi, che mi prese per mano e m’introdusse a palazzo. Varcammo quattro porte, tutte provviste di portici con uomini in armi e una pedana ricoperta da tappeti per il loro comandante, e arrivati davanti alla quinta l’eunuco mi lasciò ed entrò solo, tornando poi con quattro eunuchi bizantini. Questi mi perquisirono per assicurarsi che non avessi addosso dei coltelli: a quanto mi disse l’ufficiale, era la loro procedura, in base alla quale chiunque entra al cospetto del sovrano – sia nobile o del volgo, straniero oppure no – viene perquisito, proprio come fanno in India. Dopo la perquisizione l’addetto alla porta, presomi per mano, aprì i battenti e mi ritrovai circondato da quattro uomini: due mi presero per le maniche, gli altri due si misero dietro, e insieme a loro entrai quindi in una grande sala delle udienze. I muri erano rivestiti di mosaici che rappresentavano vari aspetti del creato – esseri viventi e altri inanimati -, e al centro del locale scorreva un rivo d’acqua con alberi su entrambi i lati. A destra e a sinistra c’erano degli uomini che stavano ritti in piedi senza proferir parola e i quattro che mi scortavano mi consegnarono ad altri tre al centro della sala. Questi mi presero per le vesti come avevano fatto i primi, poi qualcuno fece un cenno e mi condussero oltre. Uno di loro era ebreo e mi disse in arabo: << Non temere: fanno sempre così con gli stranieri! Io sono l’interprete e vengo dalla Siria >>. Allora gli chiesi come dovevo salutare. << Dì: al-Salam alay-kum! >>, mi rispose.

Giunsi così a un imponente padiglione ove vidi il sovrano assiso in trono, con davanti la moglie, la madre della khatun, e quest’ultima ai suoi piedi insieme ai suoi fratelli. Alla sua destra c’erano sei uomini, alla sua sinistra quattro, e altri sei gli stavano alle spalle – e tutti erano armati. Prima che mi avvicinassi a salutarlo, il sovrano mi fece segno di sedermi un attimo per placare il mio timore: io obbedii, poi mi avvicinai e gli porsi i miei omaggi. Egli fece nuovamente segno di sedermi – la qual cosa, questa volta, io non feci – e quindi mi pose una serie di domande su Gerusalemme, la Roccia santa, la Qumama (chiesa del Santo Sepolcro), la culla di Gesù, Betlemme ed Hebron, e poi ancora su Damasco, Il Cairo, l’Iraq e l’Anatolia.

Con l’aiuto dell’ebreo che ci faceva da interprete risposi a tutto quanto e le mie parole gli piacquero a tal punto che disse ai suoi figli: << Trattate quest’uomo con riguardo e proteggetelo! >>.

Poi mi regalò una veste d’onore e ordinò di darmi un cavallo con sella e briglie e un parasole di quelli che usano per riparare la testa dei re in segno della sua protezione (aman). Allora gli chiesi di mandarmi anche qualcuno che venisse ogni giorno con me a cavallo per la città, onde poter ammirare stranezze e meraviglie di cui poter parlare nel mio paese, ed egli acconsentì.

Qui vige l’usanza che se qualcuno indossa una veste d’onore del sovrano e monta un suo cavallo, venga portato a fare il giro della città a suon di corni, trombe e tamburi, in modo che tutti lo vedano – serve soprattutto perché non vengano importunati i Turchi del sultano Ozbek -. Sicché anch’io vi fui condotto”.

Leggendo le descrizioni di Ibn Battuta emergono due sentimenti contrastanti: l'incanto, il fondersi di smarrimento e sorpresa che nasce dall'incontrare un altrove sconosciuto e straniamento, perché siamo costretti a guardare con altri occhi ciò che diamo per scontato.

La percezione che ha Ibn Battuta di Santa Sofia è ben diversa non solo dalla nostra, ma anche da quella che aveva un abitante di Costantinopoli della sua epoca. La sfida dell'alterità, anche nel nostro quotidiano lavorativo è capire la vision di chi abbiamo accanto, figlia della sua storia personale, della sua cultura e dei pregiudizi. Per questo, per collaborare al meglio, dobbiamo sempre tenere in mente che ciò consideriamo banale, scontato e consolidato, può non esserlo per l'altro

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