La misura della felicità
Gli antichi greci esprimevano il concetto di felicità con la parola “eudaimonia”: esercitare bene (eu) le proprie capacità (daimon). Nella cultura greca, essere felici coincideva con la capacità di esprimere – come diremmo oggi – i propri talenti, di mettere in pratica quello che sappiamo fare meglio. Non soltanto, ma allo stato di felicità, ponevano un’ulteriore condizione, indispensabile: quella della “giusta misura”. Per essere felici occorreva riuscire ad esprimere i propri talenti, ma nella giusta misura, senza andare oltre le proprie possibilità, la propria natura.
Ed è in questa “giusta misura” che si giocava la differenza tra l’essere felici e il non esserlo affatto.
Esprimere il proprio talento imponendosi di superare le proprie possibilità (il proprio “daimon”, l’essenza di ciascuno, quello per cui si è al mondo) significava, in sostanza, condannarsi a vivere nella perenne infelicità. Per essere felici, occorreva, al contrario, conoscere i propri talenti, saperli esprimere (o avere la possibilità di farlo), e conoscerne la misura. Conoscere la linea oltre la quale la nostra natura non sarebbe in grado di andare.
Sapersi collocare.
Se proviamo ad osservare il nostro tempo secondo questa prospettiva, la corsa senza fine allo step successivo che spesso sperimentiamo o desideriamo, la corsa ininterrotta al livello superiore, diventerebbe, nel momento in cui aspiriamo a superare la nostra “giusta misura”, di fatto una corsa alla nostra infelicità.
Forse questa idea di felicità, come “espressione dei propri talenti, nella giusta misura”, è un concetto che, dopo quasi due millenni da quando è stato formulato, possiamo considerare del tutto obsoleto?
Quanto dell’eudaimonia greca è ancora presente nella società basata sulla performance, cioè quella in cui viviamo e lavoriamo?
Quanto il mondo del lavoro si prende cura realmente della nostra felicità? e quanto lo facciamo noi?
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Eppure, in questa relazione tra “felicità” e “giusta misura”, c’è ancora qualcosa che ci conquista, che sentiamo di aver provato o di saper comprendere.
Nel desiderio di crescere e di migliorarsi - legittimo, sano e doveroso verso noi stessi e il contesto in cui viviamo – dove possiamo collocare la nostra giusta misura? Volersi superare in un percorso senza fine, rischia davvero di diventare la nostra personale corsa all’infelicità?
Facendo tesoro di questa prospettiva, possiamo ancora condividerne l'essenza, che forse é tutt'altro che superata.
Nella ricerca della felicità, presente e futura, diventa fondamentale, quindi, conoscere i nostri talenti, conoscere i nostri non-talenti e conoscere fin dove, con entrambi, possiamo arrivare.
Conoscere i nostri talenti ci permetterà di capire cosa sappiamo fare bene, su cosa impegnare le nostre energie, su cosa studiare ed applicarci, su cosa contare nei momenti di difficoltà, su cosa appoggiarci con sicurezza.
Conoscere i nostri non-talenti – incluse anche quelle capacità che vorremmo intensamente che lo fossero, ma non lo sono - sarà anche questa una capacità di grande valore: ci proteggerà dalle strade che non sono le nostre e ci eviterà di sprecare energie che potrebbero essere inestimabili altrove.
Conoscere la nostra personale “giusta misura” - sia essa relativa ad una capacità, ad uno stile di vita, ad un affetto, ad un ruolo, ad un contesto lavorativo o a qualsiasi altro ambito - ci aiuterà a comprenderci e a perdonarci.
Senza dover sopportare, inutilmente, una frustrazione che a volte non sappiamo motivare.