LA RIPRESA E I RISCHI: PERCHÉ SERVE UN IMPEGNO DEI PARTITI SUL DEBITO

LA RIPRESA E I RISCHI: PERCHÉ SERVE UN IMPEGNO DEI PARTITI SUL DEBITO

La tenera pianticella della crescita ritrovata deve essere irrobustita e, contemporaneamente, protetta da improvvise, sempre possibili, gelate. La tempesta finanziaria perfetta seguita al fallimento di Lehman Brothers aveva colpito un organismo già debole: nessun altro paese, tranne la Grecia, ne ha sofferto come il nostro, per una fragilità che viene da lontano.

La forte recessione del 1992 era stata superata grazie al temporaneo beneficio della svalutazione della lira ma, già alla metà degli anni Novanta, l’economia italiana mostrava i segni della debolezza strutturale, sintetizzati dalla bassa o nulla crescita della produttività.

All’inizio del nuovo secolo era evidente il declino relativo dell’Italia rispetto ai principali paesi occidentali alla produttività dei quali, sino agli anni Ottanta, si era rapidamente avvicinata. Un grande parte dell’economia italiana faticava ad adattare i nuovi modi di produrre e commerciare che si imponevano nel resto del mondo.

Da tre anni la crisi è tecnicamente finita. Nel 2017 la crescita supererà ogni previsione iniziale. Battere le aspettative non è mai un risultato da poco. Non dimentichiamo però che tutta Europa festeggia un boom sorprendente, nel quale l’Italia resta fanalino di coda. Per ora, il nostro paese ha ripreso il sentiero di crescita quasi nulla della produttività che aveva caratterizzato il decennio pre-crisi.

Malgrado ciò, l’uscita dall’emergenza degli anni 2008-2014 crea le condizioni per guardare oltre l’oggi, per rafforzare e mettere in sicurezza la nostra economia. Guai a ripetere la storia della seconda metà degli anni Ottanta, quando fu lasciato incompiuto il lavoro di ristrutturazione industriale e si pensò che una forte dose di spesa pubblica in disavanzo bastasse a sostenere indefinitamente la crescita.

La crisi del 1992 ci sorprese quando le munizioni per combatterla erano già state (male) utilizzate.

Sfortunatamente, l’occasione per irrobustire la pianticella della crescita e proteggerla dai rischi si manifesta in un momento politicamente complesso, di campagna elettorale già conclamata. C’è largo, seppure non unanime, consenso su ciò che servirebbe a irrobustire l’economia sforando il tetto alla crescita che da molti anni incombe come un destino apparentemente immodificabile: spostare la spesa pubblica dai consumi agli investimenti, soprattutto nelle reti di supporto all’economia digitale, dare maggiori risorse a università e ricerca liberandole dai lacci anacronistici che ne trattengono l’espansione, creare una burocrazia moderna amica dell’impresa e del cittadino, stimolare la concorrenza nel settore dei servizi.

Sono però politiche che danno benefici nel lungo periodo a fronte di costi di breve andare, impensabili in un anno elettorale. Dovremo, dunque, aspettare ancora per vedere irrobustita la crescita del Pil e stimolata quella della produttività.

Ciò che, comunque, non può aspettare è la messa in sicurezza di quanto abbiamo già ottenuto, di questa crescita più flebile che altrove ma assai benvenuta. Il rischio maggiore viene dal più elevato rapporto debito pubblico/Pil di tutta la nostra storia unitaria. L’Italia è sempre stata un paese ad alto debito ed è stata capace di tollerarlo abbastanza bene. Solo Mussolini fece ricorso a una ristrutturazione del debito. Ma la storia del nostro indebitamento pubblico non basta a lasciarci tranquilli. Anzitutto perché un debito elevato costituisce un freno alla crescita, contribuisce alla percezione di fragilità del nostro sistema bancario, è una costante minaccia alle pensioni e allo stato sociale, le grandi realizzazioni democratiche del dopoguerra. In secondo luogo perché oggi chi investe nei nostri titoli di stato ha informazioni e opportunità di investimenti alternativi come mai nel passato. Basta poco per produrre un’improvvisa disaffezione verso i nostri titoli. Non possiamo permetterci una ripetizione del 2011. La pianticella della crescita gelerebbe e chissà quando potrebbe poi rispuntare. È proprio questo ciò che temono i partner europei che insistono perché riduciamo il nostro rischio.

A quest’invito noi rispondiamo che l’Unione Europea è stata creata anche in uno spirito di condivisione del rischio. Queste due opposte posizioni, entrambe dotate di buone ragioni, bloccano al momento il progresso nel completamento dell’unione bancaria e nella creazione di meccanismi di sostegno per i paesi dell’Unione che soffrissero per improvvise crisi di liquidità. Esiste però una probabilità non piccola che, formato il governo tedesco, si proceda alle riforme dell’Unione in un quadro di grande debolezza negoziale dell’Italia. È interesse vitale del nostro paese recuperare autorevolezza. Come? Il nostro paese muova un subito e senza contropartite un passo credibile verso una riduzione del rischio che è rappresentato dal più elevato indebitamento di tutta la nostra storia. Si tratta di una priorità che dobbiamo, comunque, darci, per motivi indipendenti dalla nostra appartenenza all’Unione Europea.

In questo modo otterremo due risultati: abbassare il rischio di una nuova recessione e ottenere migliori credenziali per negoziare una maggiore condivisione europea dei rischi, nella consapevolezza che l’Unione Europea è la nostra principale, forse unica, ancora di stabilità. Il primo passo che spetta all’Italia si realizza in due modi: evitando di sforare i saldi previsti dalla legge di bilancio in discussione e indicando, prima delle elezioni, un sentiero di riduzione del rapporto debito/Pil, graduale ma credibile nel lungo periodo, che tutte le principali parti politiche si impegnino a rispettare quando andassero al governo (si veda anche Il Sole 24 ore del 24 settembre scorso). Cadrebbero così anche le accuse e i sospetti di populismo. La cosiddetta società civile può, se lo vuole, giocare un ruolo importante di stimolo e formazione dell’opinione pubblica per una nuova cultura del debito pubblico.

Gianni Toniolo, Il Sole–24 Ore


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