"La storia come pensiero e come azione": Benedetto Croce e l'intellettuale militante
Il 20 novembre 1952, nella sua dimora napoletana, si spegneva colui che Gramsci definì "il papa laico": Benedetto Croce. La sua scomparsa segnò il tramonto di una figura d'intellettuale che, nell'attuale panorama culturale, emerge come paradigma da rimeditare.
Croce incarnò la sintesi tra speculazione filosofica e prassi civile. La sua "religione della libertà" trascese la dimensione teoretica per farsi azione nei frangenti cruciali della storia nazionale.
L'"antimanifesto" del 1925 ne costituisce l'espressione più nitida. Al tentativo del regime di edificare una religione statale - con l'avallo dell'ex sodale Gentile - Croce contrappose una concezione della libertà irriducibile a qualsiasi forma di statolatria.
La sua visione della storia come "storia della libertà" conserva una singolare pregnanza: un processo dialettico di progressi e regressioni, in cui ogni generazione è chiamata a rinnovare l'impegno per i valori liberali. Non acquisizione definitiva, dunque, ma compito perenne.
Il suo itinerario intellettuale attesta come il pensiero critico debba necessariamente tradursi in quella che egli stesso designava come "storiografia militante": una riflessione che illumina il presente e orienta l'agire.
In un'epoca di marginalizzazione del ruolo degli intellettuali e di risorgenti pulsioni autoritarie, la lezione di Croce - del filosofo che seppe opporsi nel momento più arduo - mantiene intatta la sua valenza.
Il suo lascito essenziale risiede forse proprio in questa unità di pensiero e azione che, nell'odierna dispersione, si staglia come paradigma necessario.