Lavoro e (è) comunità ?
Rimango sempre colpito (positivamente) quando parlando con colleghi e non a proposito di lavoro si finisce anche col discutere di impegno, voglia di fare, condivisione, propositività, idee, ecc. Insomma, spesso chi lavora vorrebbe essere ascoltato e magari preso con più considerazione dai colleghi. Dato che gli adulti generalmente vorrebbero assumersi delle responsabilità ed essere coinvolti nelle decisioni che li riguardano, sembra un bisogno decisamente legittimo. Visto però che il lavoro è una questione importante e spesso anche critica nella vita di ciascuno, certe necessità non dovrebbero essere sottovalutate, ma andrebbero assunte e gestite. Si sa che il lavoro (potrà sembrare strano) non è solo lavoro ed il fatto che gli adulti ne parlino nei suddetti termini, potrebbe significare un certo bisogno di coinvolgimento per acquisire nuove forme di conoscenza oppure nuove competenze o semplicemente per mero bisogno di essere ascoltati. Insomma, il lavoro visto nei termini della sua valenza formativa. Anzi, posso dire, senza la paura di essere smentito che il lavoro, aiuta la costruzione di una propria identità e favorisce una certa responsabilità sociale.
Lavorare, come si suole dire, nobilita l’uomo o meglio, lo aiuta a crescere. Anche se crescita e formazione si possono in un certo senso correlare, posso dire che la formazione è legata da un lato alla crescita professionale mentre dall’altro ha a che fare con lo sviluppo della persona in sé. Personalmente credo che le due non si escludano a vicenda, anzi, nella moderna “Learning Society”, queste si sposano perfettamente.
Gli argomenti di coloro i quali chiedono maggiore coinvolgimento all’interno della comunità in cui lavorano, dimostra che apprendere non è opzionale. Dimostra anche che l’apprendimento è necessario per lavorare e vivere in modo proattivo, responsabile e autonomo. Quello che non sappiamo è che crearsi spazi verso nuove conoscenze e nuove competenze può diventare fondamentale in funzione della propria libertà. Usare le conoscenze apprese, aiuta nella gestione del proprio progetto di vita in modo più funzionale e intelligente e permette di rispondere alle sfide della vita anche di quella lavorativa. Si potrebbe aggiungere che, da questa prospettiva, conoscere migliora i processi produttivi e apprendere nel lavoro migliora il funzionamento e la salute dell’ambiente.
A questo punto però bisognerebbe chiamare in causa coloro che dovrebbero facilitare questo processo: i manager. Quando si parla di azienda si pensa ai processi di pianificazione della produzione, progettazione, supply chain, amministrazione e così via, pensando di relegare la formazione (quasi sempre) all’ultimo posto. L’impressione generale (o quantomeno da parte dei miei interlocutori) è che l’investimento a carico della formazione non sia sufficiente e che vi sia la necessità di progettare, pianificare e realizzare percorsi formativi più orientati alle persone, piuttosto che percorsi a cui le persone si devono adeguare.
Esistono diversi modelli che permettono di costruire processi formativi pertinenti ma vi sono anche ambienti costruiti razionalmente per ospitare questi modelli. Uno di questi è interessante per la dinamicità che lo contraddistingue. È l’organizzazione che apprende o se volete Learning Organization, un modello che genera conoscenza e migliora il flusso delle informazioni assumendo sempre maggiore centralità quanto più complessa e pressante diventa la decisionalità in azienda. La formazione nella Learning Organization si caratterizza per essere non di tipo individuale, ma di tipo cooperativo (l’azienda, per l’appunto) diventando di interesse per l’intero sistema. Citando i Sigg. Schön e Agrys che di organizzazione ne sapevano qualcosa: «L’apprendimento organizzato avviene quando i membri dell’organizzazione agiscono come attori di apprendimento per l’organizzazione, quando cioè informazioni, esperienze, scoperte e valutazioni fatte da ciascun individuo, diventano patrimonio comune dell’intera organizzazione, codificandole in norme, valori, mappe mentali, in base alle quali, ciascuno agisce. Se questa codificazione non avviene, gli individui avranno imparato, ma non le organizzazioni». (Cfr., C.Agrys, D.A. Schön (1998), Apprendimento organizzativo, Teorie, metodo e pratiche, Guerini e associati, Milano)
Direi una definizione che coglie nel segno o che quantomeno si allinea alle istanze più o meno consce di coloro che vorrebbero maggiore coinvolgimento. Io credo che commetteremmo un grave errore se pensassimo che l’azienda in cui lavoriamo (indipendentemente dalla dimensione) sia una massa informe e disarticolata. Per quanto spesso caotico, il luogo di lavoro è formato da individui che si differenziano intenzionalmente per operare nell’interesse generale. In questo luogo, si apprende quando, per l’appunto, il cambiamento delle persone e il cambiamento dell’organizzazione procedono di pari passo. Nella organizzazione che apprende, il processo di crescita coinvolge tutti, il che significa che è di carattere sociale e se gestito in modo opportuno, agevola il contesto e la relativa organizzazione. Insomma, la condivisione favorisce l’aumento della padronanza personale, si creano nuovi modelli mentali, si ha una visione positiva condivisa nel e del gruppo, si apprendono abilità di pensiero collettivo e pensiero sistemico per comprendere il gruppo in termini di relazioni interpersonali. (Cfr. P. Senge, (1992), La quinta disciplina, Sperling & Kupfer, Milano)
È chiaro a questo punto che il coinvolgimento di chi a buon titolo, ne avanza la richiesta (e anche di quelli che la richiesta non l’avanzano) assieme ad un adeguato lavoro di squadra (con il supporto di chi ne facilita le dinamiche) ha dei risvolti tutt’altro che banali. Investire nell’inclusività, costa poco e genera molta crescita personale che si trasforma a sua volta in un grande valore umano per l’azienda.
Process Engineering Specialist presso Industrie Ilpea SpA
5 anniCiao Marco, condivido a pieno! buona giornata