L'azienda sostenibile: quali competenze servono per guidare l'evoluzione ESG?
Esistono diverse ipotesi sull’etimologia della parola “sostenibilità”. Potrebbe derivare dal latino sustĭnēre, “sorreggere”, o “tenere da sotto”; tuttora è chiamato “sustain” il pedale del pianoforte che prolunga la durata delle note, facendole riverberare anche quando il musicista ha lasciato il tasto. Allo stesso modo, la sostenibilità è legata ad azioni che si riverberano nel tempo, aumentando in questo modo la “durata” del pianeta e della vita. Non è un caso che, riprendendo proprio il concetto di durata nel tempo, i francesi parlino di durabilité, capacità di perdurare nel tempo.
La sostenibilità nelle organizzazioni
È da questo che partono molte imprese: la sostenibilità è infatti uno dei punti di maggiore urgenza su cui persone e organizzazioni sono chiamate ad agire. Non si tratta di un processo lineare, ma di un movimento continuativo e circolare, che può partire dall’interno o dall’esterno dell’azienda, dalle sollecitazioni del mercato o da quelle delle persone che la animano. È un processo co-generativo e di miglioramento continuo, perché per accompagnare l’organizzazione a trovare nuovi metodi per lavorare in modo più sostenibile bisogna portare in esse una cultura della sostenibilità che non può essere calata dall’alto ma deve alimentarsi da ogni fonte possibile.
La richiesta di una maggiore attenzione alla sostenibilità, infatti, arriva da tutti gli stakeholder, in primis clienti e candidati. Questo richiama ciò che Philip Kotler e Christian Sarkar segnalavano già nel 2018, nel loro libro Brand Activism: oggi alle imprese viene chiesto di essere protagoniste del cambiamento, di impegnarsi concretamente per risolvere problemi che agli occhi delle persone, e specie delle generazioni più giovani, hanno acquisito maggiore rilevanza. Non basta affermare nel proprio purpose di essere un’azienda sostenibile, è necessario passare all’azione, walk the talk come dicono gli americani.
In passato queste azioni erano suddivise tra le diverse funzioni aziendali, a seconda delle priorità percepite dall’azienda come più stringenti: il Finance se ne occupava per aumentare il rating ESG e rendere l’organizzazione più attrattiva agli occhi degli investitori, il Controllo Qualità era preposto a preoccuparsene nelle aziende cosiddette energivore, il Marketing si impegnava a migliorare l’immagine aziendale, e la Comunicazione a comunicare tutte le buone pratiche.
Negli ultimi anni è cresciuta la consapevolezza della necessità di un coordinamento più forte, nelle mani di una figura unica, a diretto riporto del CEO o del Board. È da poco stato pubblicato un articolo su Harvard Business Review che indaga le evoluzioni del ruolo del Chief Sustainability Officer. Le prerogative di questo ruolo negli ambiti di competenza sono infatti radicalmente cambiate: inizialmente era una funzione che aveva il compito di rappresentare, nei confronti degli stakeholder, tutte le iniziative messe in atto dall’impresa. Oggi questo non è più sufficiente: questo ruolo deve avere potere decisionale strategico. Per assicurarsi che le politiche di sostenibilità siano pienamente condivise, questa figura dovrebbe avere potere di agire nell’impresa, non essendo solo una figura di raccordo o di advisory, ma garantendo l’implementazione delle soluzioni suggerite, grazie all’appoggio del management e ad una preparazione tridimensionale, e non focalizzata solo su una delle componenti (Environmental, Social e Governance).
Ma nello specifico, cosa significa? Quali ambiti di competenza deve abbracciare questa figura?
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Gli ambiti di competenza del professionista della sostenibilità
In primo luogo, deve possedere solide competenze in ambito finanziario, perché tuttora questo è uno dei primi driver a guidare le azioni di molte organizzazioni. Nei prossimi anni questo diventerà ancora più importante alla luce della Corporate Sustainability Reporting Directive, che tra il 2024 e il 2026 estenderà l’obbligo di redigere un reporting di sostenibilità a molte più organizzazioni di quelle attualmente coinvolte: prima alle grandi aziende di interesse pubblico con più di 500 dipendenti, poi alle grandi imprese (più di 250 dipendenti e 40 milioni di fatturato), a seguire a tutte le aziende quotate ad eccezione delle microimprese e infine alle imprese extracomunitarie aventi un fatturato netto di oltre 150 milioni all’interno dell’UE per due esercizi successivi o aventi una subsidiary che si qualifica come PMI quotata e/o succursale con un fatturato netto superiore a 40 milioni per l’esercizio precedente. Un bel salto in avanti rispetto alle poco più di 500 imprese che avevano questo obbligo nel 2023!
Già ora però gli investitori, le banche e i Fondi di Private Equity dimostrano di essere sempre più attenti al tema della sostenibilità. Molti di essi richiedono infatti un rating di sostenibilità, capace di certificare la solidità di un emittente, di un titolo o di un’azienda dal punto di vista degli aspetti ESG, per completare la propria analisi finanziaria con una prospettiva più accurata sul suo potenziale a lungo termine.
Anche dal punto di vista legale è importante che queste figure abbiano grande sensibilità, dovendo far fronte a leggi e regolamentazioni che cambiano frequentemente per adattarsi alle nuove sfide e, nel caso di multinazionali, spesso a normative non unificate, da cui deriva una forte necessità di integrazione con le altre funzioni, prima tra tutte quella Legal. Serve quindi un approccio “glocal”, capace di comprendere le specificità di ogni singolo contesto e di adattare le proprie azioni, creando un sistema che coinvolga territorio e comunità circostante, facendo sì che l’impatto positivo si riverberi all’esterno dell’organizzazione andando a coinvolgere la società intera
Trattandosi di un tema strategico, che deve tendere a rendere l’intero modello economico ed organizzativo più sostenibile, serve quindi la capacità di comunicare e sostenere le azioni attuate, anche attraverso politiche di Employer Branding capaci di massimizzarne l’efficacia ingaggiando le persone e coinvolgendole nelle più ampie tematiche della sostenibilità, anche quelle meno note.
Un tema chiave della sostenibilità sociale è ad esempio quello dell’ageing, ancora troppo poco considerato. Secondo il report Eurostat Ageing Europe del 2019, è previsto infatti che la popolazione dell’Unione Europea raggiunga un picco di 449,3 milioni nel periodo 2026-2029, prima di scendere lentamente a 441,9 milioni entro il 2050. Ad aumentare significativamente sarà la popolazione over 65, passando da 90,5 milioni all'inizio del 2019 a 129,8 milioni entro il 2050, mentre a quella data diminuirà del 13,5% il numero di persone di età inferiore ai 55 anni. Se consideriamo che oggi le persone di 55 anni o più rappresentano quasi un quinto della forza lavoro totale, è facile intuire la crescente importanza di migliorare l’equilibrio vita-lavoro di questa fascia di lavoratori (e non solo), consentendo loro di beneficiare di condizioni di lavoro flessibili capaci di andare incontro ai loro bisogni familiari o di salute.
Vi è poi da considerare un ulteriore elemento centrale, l’innovazione. La Digital Transformation è infatti un potente abilitatore alla sostenibilità, al punto che c’è chi, alle tre dimensioni ESG, affianca anche un quarto elemento, quello della sostenibilità digitale. Le buone prassi di sostenibilità oggi nascono soprattutto dalla capacità di migrare l’impiego della trasformazione digitale in processi aziendali capaci di impattare sensibilmente sull’organizzazione e sul ciclo di vita del prodotto o del servizio, consentendo al contempo alle persone di ottimizzare il proprio lavoro rendendolo più efficiente.
Tema centrale è infine quello legato al Change Management: il Chief Sustainability Officer deve saper intervenire, all’interno dell’azienda, per rendere realtà le decisioni prese. Non basta essere un “attivatore di idee” e saperle promuovere, occorre saperle “fare accadere”. Consapevoli che ognuna di queste azioni porta con sé cambiamenti a volte anche radicali, il Chief Sustainability Officer è chiamato a guidare le azioni attraverso l’esempio personale, governando l’execution grazie alla sua capacità di generare consenso e di influenzare stakeholder spesso guidati da obiettivi fra loro eterogenei, indirizzandoli verso un obiettivo comune.
Occorre quindi sempre più che il Chief Sustainability Officer abbia una visione d’insieme e sistemica, capace di integrare diversi elementi su più livelli organizzativi, fungendo da interlocutore strategico diretto con il Board o con il CEO. Siamo pronti oggi? Abbiamo nel nostro mercato queste professionalità? Rispetto al bisogno espresso, siamo ancora distanti, ma le aziende si stanno organizzando, prevedendo percorsi di sviluppo e formazione su chi ha già una base di competenze importanti, ma soprattutto mostrando di essere aperte a considerare professionisti provenienti anche da altri settori e industrie, in grado di fornire sulla sostenibilità una visione sempre più aperta, e arricchendo così le competenze interne dell’organizzazione. Anche questa è sostenibilità virtuosa.