L'empatia può essere eccessiva?
L’empatia a livello sociale ha un suo scopo: quello di creare coesione sociale. Ma fino a che punto questo è un bene? Quando l’empatia diventa eccessiva? Pensiamo al medico o al chirurgo che, se empatizzasse troppo con la sofferenza del paziente, finirebbe con il farsi sopraffare dall’emotività con gravi conseguenze: rischio di burnout per sé e di errori medici motivati dall’ansia. Insomma, l’empatia va “delimitata” per il bene di tutti? (“Airone”, Cairo Editorie)
Scopriamolo nel dettaglio in questo articolo, grazie al prof. Paolo Albiero , professore associato in “Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione”, docente di “Psicologia dell’Adolescenza” e “Adolescenza e sport” , afferente al DPSS - Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione UniPD .
Vorrei iniziare con due brevi premesse, forse tautologiche, ma che a mio parere è necessario tenere bene a mente nell’affrontare questo argomento.
La prima considerazione è che oltre cinquant’anni di ricerca hanno dimostrato in modo molto convincente come l’empatia sia una caratteristica che gioca un ruolo importante nella qualità della nostra vita sociale: contribuisce a diminuire l’aggressività nelle sue varie forme, migliora la comunicazione, favorisce i comportamenti prosociali e l’altruismo, riduce stigma e pregiudizi. Non possiamo prescindere da tutto questo.
La seconda considerazione riguarda il costrutto empatia, che, al pari di altri costrutti - il primo che mi viene in mente è la resilienza - gode oggi di grande popolarità, ma se spesso è usato in modo improprio. Non è questa la sede per affrontare un argomento così complesso e dibattuto, ma è indubbio che un uso “spericolato” del termine comporta spesso una confusione che poco giova al dibattito sull’argomento. Tornerò su questo punto, seppure velocemente, in seguito.
La tesi alla base di «Contro l'empatia. Una difesa della razionalità*», dello psicologo canadese Paul Bloom è sicuramente stimolante. Però, a mio parere, contiene un vizio di forma, ovvero poggia sull’assunto monocausale e deterministico che i nostri comportamenti sociali siano primariamente riconducibili ad una sola capacità. In questo caso l’empatia.
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In realtà sappiamo che i nostri vissuti, le nostre prese di decisione, le nostre azioni sono la conseguenza dell’interazione tra una serie di caratteristiche sia dell’individuo (ad esempio il suo temperamento - ovvero “il carattere”-, la sua personalità, la sua capacità di autocontrollo, la sua emotività, ecc.), sia del contesto in cui la persona agisce. Immaginare che una sola capacità, nel nostro caso l’empatia, sia cruciale nel determinare i nostri comportamenti sociali è un’idea inadeguata a rendere conto della complessità del funzionamento umano.
Per meglio spiegare quanto intendo dire, faccio un esempio.
Alcuni lustri fa, assieme a dei colleghi condussi una serie di ricerche pionieristiche sul ruolo dell’empatia nel bullismo. In una prima ricerca dimostrammo che i bulli sono individui che hanno un deficit di empatia.
In una successiva ricerca ci proponemmo di individuare le ragioni per cui dei preadolescenti, di fronte ad odiosi episodi di bullismo, possono decidere di intervenire aiutando i loro compagni vittime o possono rimanere spettatori passivi. Con una certa sorpresa scoprimmo che tra coloro che intervenivano e coloro che si limitavano ad essere spettatori non vi erano differenze nelle capacità empatiche. Dunque, la presenza di empatia può essere una condizione necessaria ma non sufficiente per dare luogo a comportamenti prosociali. La ricerca dimostrò che ciò che spingeva un soggetto empatico ad intervenire era il modo in cui l’empatia si combinava con altre caratteristiche dell’individuo, tra cui l’autoefficacia percepita, ovvero la percezione di avere gli strumenti, i mezzi per potere gestire e fronteggiare una situazione così complessa e potenzialmente pericolosa.
Questa ricerca a mio parere è interessante perché, al di là dei risultati, dimostra quanto il nostro comportamento sia una conseguenza dell’interazione di una costellazione di caratteristiche disposizionali. Quindi l’essere empatici, di per sé, può non essere affatto determinante.
La questione rilevante è come la nostra capacità di essere empatici interagisce con altre caratteristiche.
Ad esempio, numerose ricerche hanno dimostrato che un’altra caratteristica cruciale nel modulare il nostro comportamento sociale è la capacità di autoregolazione (self regulation). Questa capacità è oggi considerata una componente di base del nostro temperamento, dunque ha una base innata, ma può essere sviluppata ed allenata. L’autoregolazione è fondamentale per il nostro adattamento sociale, già a partire dall’infanzia. Le persone che hanno buona capacità di autoregolazione sono in grado di controllare i loro vissuti e i loro comportamenti, sono in grado di partecipare alle emozioni degli altri mantenendo al contempo una sana distanza. In altre parole, non corrono il rischio di essere sopraffatti dalla loro empatia, le loro decisioni e le loro azioni sono solitamente funzionali e adattive.
Quando empatizziamo con qualcuno, infatti, viviamo al nostro interno un’emozione vicaria originata dall’emozione/situazione dell’altro. Questa condivisione emotiva origina in noi un arousal, ovvero uno stato di attivazione ed eccitazione psicofisico.
La capacità di autocontrollo permette di controllare questa attivazione e far sì che essa non diventi eccessiva.
Quando la nostra attivazione diventa eccessiva non si parla più di empatia, bensì di disagio personale-personal distress, una forma di condivisione emotiva diversa dall’empatia, caratterizzata da vissuti emotivi particolarmente intensi, come ansia, angoscia, che possono esercitare un effetto disfunzionale sulle prese di decisione e sulle azioni conseguenti, incidendo negativamente sul benessere e l’adattamento della persona.
Per provare a semplificare il discorso, immaginiamo che l’empatia sia una radio che trasmette della musica. Le persone dotate di buone capacità di autoregolazione sanno alzare o abbassare il livello della musica in modo adeguato a seconda delle richieste del contesto in cui si trovano.
Dunque, comprendere e condividere le emozioni e sentimenti dell’altro non implica necessariamente che nei processi decisionali e nelle azioni si venga eccessivamente condizionati da questo.
* Contro l'empatia. Una difesa della razionalità, Paul Bloom – Ed. Liberilibri, 2019