L’escalation di violenza di Alessio il Sinto “Forse ci sono altri stupri”
L’ipotesi degli investigatori: “Seferovic
ha un’ossessione per le giovanissime”
Le due vittime 14enni: “Nel quartiere
dicono che dopo lo ha fatto ancora”
CORRADO ZUNINO
ROMA. Oltre la grata che s’apre in Via Longoni, lungo il sentiero che accompagna verso un putrido bosco, ci sono nuove baracche. Materassi sgonfi, due armadietti, una bottiglia di minerale poggiata su un tavolo sbilenco. Servono alle prostitute trans, che qui comandano e fanno all’amore con i clienti. Bottiglie di vino a terra, bottiglie di birra. Preservativi. Per la violenza su due adolescenti di 14 anni, bloccate a quella grata grigia con le manette, Alessio il Sinto — è il nome da Facebook di Mario Seferovic, 21 anni, nato in provincia di Napoli, residente da clandestino nel campo nomadi di Via di Salone in Roma — non poteva scegliere location più adatta. L’inferno, in un tiepido pomeriggio di maggio.
«Aveva premeditato tutto», raccontano gli investigatori, «aveva scelto una zona insonorizzata dagli alberi e con il traffico del sesso intorno che toglie attenzione allo stupro».
Il profilo criminale del predatore bosniaco che vestiva bene, si faceva selfie con borsette alla moda ottenute di frodo, vantava parentele con il clan Casamonica e corteggiava languido su Messenger, il quarto giorno dopo l’arresto si fa pesante. L’ultima indicazione agli investigatori è di ieri sera: indagate sulle possibili violenze su altre adolescenti.
L’ipotesi è suffragata da diverse circostanze. Intanto, le testimonianze delle due ragazze nel corso della lunga ricostruzione dei fatti: «Lo abbiamo sentito dire nel nostro quartiere, in estate, dopo che l’aveva fatto a noi».
Altre vittime, sì. Negli appunti degli investigatori già c’è il nome di una coetanea. E poi sullo smartphone del ventunenne sinti ci sono lunghe chat con altre ragazze-bambine, nella memoria foto così seriali da far pensare a un’ossessione per le donne acerbe.
Quando lo hanno arrestato al container 323 di Via di Salone, insieme al complice Maikon Bilomante Halilovic, lui 26 anni, incensurato e con un carattere soggiacente, Mario-Alessio era solo sorpreso. In cinque mesi non aveva pensato a scappare, né aveva cancellato il suo profilo social: «Non aveva percezione della gravità di quello che aveva fatto». Come se, riflettono i carabinieri, nella sua testa quella — la violenza — fosse il naturale rapporto tra un uomo e una donna, tra un ragazzo e due bambine.
Quel giorno di maggio i quattro ragazzi si sono mossi verso il loro incontro in autobus. Tutto si svolge nel solito, slabbrato quadrante Est della capitale. I due rom prendono il 40 da Case Rosse, quartiere Settecamini. Le ragazzine — carine, magre — si spostano invece dalla Rustica. Sono cresciute insieme, ora vivono in due quartieri diversi, non lontani. Al capolinea di via Renato Birolli le amiche scendono, la coppia di maschi Rom è già lì. È il primo incontro dopo la lunga conversazione online.
Mario continua la recita iniziata su Internet: è il protagonista. Scherza, corteggia e invita le ragazze a una passeggiata verso via Longoni, la campagna urbana a ridosso di questa strada a scorrimento veloce. «Dove stiamo andando?», chiede la fidanzata di Mario, fidanzata ancora da Internet, quando vede il primo travestito seduto ai limiti della strada. Il ragazzo bosniaco si fa aggressivo: la spinge sul sentiero, dove la grata s’interrompe lasciando un ingresso. L’amico abbraccia “la sua”donna, con forza. Mario, alberi smunti intorno, le ammanetta tutte e due. Consuma. Quando finisce, le libera. Esce dal bosco con loro, le scorta di nuovo fino all’autobus sibilando minacce senza alzare il tono: «So che non direte nulla alle vostre madri». Le ragazze sono in lacrime. Un uomo, un italiano di mezza età, le vede in via Longoni. Si ferma, chiede: «Tutto a posto?». Mario è rapido: «Fatti i c... tuoi».
Quel che accade dopo è inusuale, sconcertante. Il ragazzo nomade continua a scrivere su Facebook alla ragazzina che ha stuprato. Post di nuovo suadenti. Le chiede di uscire insieme, lei lo blocca. Mario, allora, telefona a casa, parla con la madre che già conosceva: «Signora, io sono innamorato, perché sua figlia non vuole vedermi?».
Servono settimane acché la madre si accorga delle inquietudini della figlia, la convinca a confidarsi. E quando la storia arriverà al padre, lui proverà a farsi giustizia da solo. Cercherà “Alessio il Sinto” tra le baracche del Salone: ospitano seicento zingari censiti (Alessio e Maikon, per dire, non lo erano, né avevano documenti regolari). Via del Salone resta, nonostante i molti tentativi di contenimento, il più grande campo nomadi d’Europa, un concentrato di traffici.
Mario Seferovic nel maggio del 2013 era stato denunciato, in flagranza di reato, per furto. Un anno dopo per ricettazione. Tre giorni dopo, ancora, per guida senza patente. Più volte è stato controllato dalle forze dell’ordine. Non ha mai lavorato. «Vive di reati predatori», si legge in un’informativa dei carabinieri. A Regina Coeli, per ora, non confessa nulla. Manette, violenze. Non parla.
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