L’estate non è più una macchina del tempo

L’estate non è più una macchina del tempo


Ai miei tempi… stavo per cominciare.

In quegli anni (ma quali? Eh, un po’ di sana reticenza!) l’estate era una macchina del tempo. Per tre mesi - i tre mitici mesi delle vacanze passate - per tre mesi, vivevamo catapultati in altre epoche.

Da quando ho ricordi, ho ricordi della 'villeggiatura'. Rito antiquato e oggi incomprensibile, forse.

Un bel giorno di giugno, che io ricordo associato a qualche tappa del giro d’Italia, con il sole pomeridiano che filtrava dalle serrande della camera da letto, ultima abitabile perché forse più ventilata del salotto e delle altre stanze torride dell’appartamento, mio padre decideva che basta, domani si traslocava (ma lo diceva nel suo modo tipico, interrogativo: "ma che fa, domani ce ne andiamo all'Addaura?"). Saremmo tornati i primi di ottobre, per l'inizio della scuola, o alle prime piogge.

Seguiva una frenesia in cui si stipavano all’inverosimile le nostre due macchine - la cinquecento bianca di mia madre e la Giulia 'amaranto' di mio padre - e si andava.

Il viaggio era tecnicamente breve. In linea d’aria, la nostra meta - una villa all’Addaura, propaggine selvaggia della più snob e ordinata Mondello - era distante pochi chilometri dall’appartamento di città, ma sembrava - ed era - un altro mondo.

Intanto, per accedervi bisognava attraversare "la Favorita", il grande parco ex riserva di caccia reale. Si entrava a Piazza Leoni, cioè in città, e si usciva in terra di nessuno, uno stradone alberato in discesa che costeggiava Montepellegrino, in fondo al quale c’era il mare di Mondello. L’Addaura restava allora sulla destra dove la strada continuava a costeggiare il monte, e le sue balze profumate di pini, mentre a sinistra si ingolfava nelle Saline e in quella che fu una malsana palude.

Tolta la strada principale, parallela alla costa, e un breve tratto per accedervi, non c’erano strade. Solo una striscia di asfalto davanti a una decina di ville, cinque da un lato e cinque dall’ altro, fra cui la nostra. Lo so bene perché la percorrevo in bici ogni giorno: duecento metri, girare, duecento metri, rigirare. L’asfalto finiva così, bruscamente. E iniziava una brulla distesa di sassi e cespugli spinosi, finocchi selvatici e piante di capperi.

Si andava in due tappe: la mattina, per pulire. Si aprivano le finestre, si faceva prendere aria ai materassi, ai costumi, ai pochi vestiti estivi lasciati nei cassetti. Poi, di pomeriggio mio padre portava qualche altra cosa: la radio, altri vestiti, un po’ di spesa…

E si entrava in altri ritmi, altri odori, altri sapori. Sapori del passato, per me che ero una bambina di città e mangiavo bastoncini di pesce e sofficini, biscotti Ringo e Nutella.

All’Addaura - per me era un’unica parola che designava un modo di vivere - si mangiava diversamente. Cioè: niente carne, niente cibi in scatola. Pasta, patate, pomodoro, melanzane, zucchine, uova, frutta. Raro pesce. Tutta roba che si andava a comprare al pollaio o all’orto; oppure presso ambulanti che passavano sotto casa: il pescivendolo, il fruttivendolo, il panettiere, il venditore di formaggi e altre specialità “di paese” (biscotti, pagnotte, vino). L'acqua si prendeva 'alla fontana', portandosi dietro le bottiglie.

Un diversivo non da poco, questo di andare a fare l'acqua! Difronte la fontana, c'era un emporio e magari si poteva comprare qualche cianfrusaglia. Non c'erano negozi veri e propri, a Mondello. Un emporio, che vendeva un po' di tutto e, vicino alla spiaggia, una gelateria, un tabaccaio, l'edicola dei giornali, un bar. Fine. Davanti al tabaccaio, c'erano due ceste: una di infradito femminili, dette 'giapponesine'; e una di infradito maschili, nere, con scritto 'Zoari'. Il tabaccaio vendeva anche salvagenti e canotti. Raramente le infradito vecchie si sostituivano con le nuove.

Per il resto, bastavano gli ambulanti. Passavano di tanto in tanto e ci si affrettava a fare gli acquisti.

Attesissimi da noi bambini, il venditore di 'pollanche' (pannocchie bollite), vecchissimo e bruciato dal sole, e di gelati. Prima cocente delusione, quest'ultimo, della mia infanzia. Tanta l'attesa, quanto deludenti i suoi gelati acquosi e insipidi.

Anche l'arredamento era di altri tempi.

La casa io la ricordo molto grande. Perché ero piccola, certo. Ma anche perché era vuota. In una parte del salotto uno studio 'in nero', potremmo dire, appartenuto a mio nonno, con i piedi dei mobili a forma di zampa leonina, artigliati. Gli scaffali della libreria protetti da spessi vetri smerigliati di color giallastro. Poi un divano rosso dalle linee geometriche, anni '50; una vetrinetta più antica ancora, con una ribaltina che si apriva su uno scompartimento rivestito di velluto e ancora profumato di caramelle e dolciumi che doveva aver contenuto.

Nella mia stanza solo due letti e due poster, raffiguranti mi pare una giungla. Un panda, Un pappagallo.

Tutto era non proprio vecchio, ma disusato. Mobili di altre case, dismesse, o anche di casa nostra di città - moderna e ben arredata con mobili di design - sostituiti da altri più nuovi. I vecchi e antiquato, o rotti, si portavano 'alladdaura'. Cimitero di mobili demodé. Di vestiti di stagioni precedenti, di cose lasciate, riviste scolorite, mezzi flaconi di shampo o creme.

Fantasmi dell'estate dell'anno prima, e di quello prima ancora.

Anche i giochi erano quelli di altre epoche. Lasciavo la casa di Barbie con l'ascensore e il libro "Come nascono i bambini" (la mia era una famiglia illuminata degli anni '70) e trovavo lunghi pomeriggi di noia in cui si poteva solo giocare a 'piedino' e 'campana', miseri giochi di salti su campi tracciati con gessetti; ammucchiare pietre, far rimbalzare la palla al muro, riempire e svuotare di terra ciotole o bicchieri rotti, provare al alzare il sellino della Graziella ...

Ad un certo punto, ricordo che avemmo una 'bambinaia', una signora vestito di nero rigidissima. Alle cinque, ci lavava nella vasca da bagno, a me e a mia sorella - ci strigliava, sarebbe meglio dire - ci vestiva elegantemente, ci pettinava e ci sistemava sul divano, in terrazza. Come bambole. Con divieto di sporcarsi, di nuovo.

Così impettite e pulite era difficile far passare le altre ore che ci separavano dalla cena (cena dei bambini, verso le sette; i grandi mangiavano dopo, per i fatti loro): io fortunatamente trovai subito la soluzione - disegnare o, quando imparai, leggere - ma per mia sorella fu molto difficile. Ereditai una piccola biblioteca di un cugino più grande: pile di Topolino, libri per ragazzi: Jack London, Il piccolo Lord, Oliver Twist, Piccole donne, Tom Sawyer, l'enciclopedia "I Quindici". Tutti letti. E riletti. Fumetti e libri, intendo. L'enciclopedia la sfogliai soltanto.

I libri avevano questo di buono: facevano apparire diverse le cose consuete. Il giardino dietro la casa, incolto e abbandonato, diventava una giungla da esplorare; un albero era una fitta boscaglia di campagna inglese, qualche pietra e qualche tappo di detersivo erano il thè delle sorelle March, i vialetti ben curati del giardino davanti casa, un parco degno di Versailles.

Ma questa dei libri fu verso la fine di quelle estati vuote. Forse l'ultima in quella casa.

La civiltà cominciò ad arrivare anche all'Addaura sotto forma di boom edilizio. Dietro casa nostra, a destra e a sinistra della nostra striscia di asfalto si cominciò a costruire, dappertutto, brutte case di più piani. Silenzio, isolamento e tranquillità diventarono un ricordo e mio padre non volle più starci: ci spostammo in una casa più lontana e più in alto proprio sotto uno sperone di roccia di Montepellegrino.

Ma già ero adolescente ed erano già gli anni '80, si andava riducendo la differenza fra estati e inverni. La televisione arrivò finalmente ache a Mondello (in precedenza non si vedeva niente: mio padre raccontava di essersi improvvisato alpinista per andare a piazzare, con centinaia di metri di cavo, un'antenna su una cima di Montepellegrino per poter vedere l'allunaggio. L'operazione fallì e andarono tutti di corsa a Palermo, nella casa di città, per assistere all'evento, che io non ricordo: avevo due anni)

La televisione, arrivò; e qualche negozio.

La macchina del tempo non consentiva più viaggi lunghi e molto indietro.

Oggi (abito ancora alladdaura!) non c'è praticamente differenza. I 365 giorni dell'anno sono tutti uguali. Per cambiare radicalmente vita e abitudini, sia pure per pochi giorni, bisogna fare viaggi veri; non quelli di pochi chilometri con la 500 bianca.

L'estate è una stagione come le altre.

Solo più calda.

Danilo Taglietti

Post-Digital Society Builder | Academic Researcher + Entrepreneur | Organization ¦ Marketing ¦ Education ¦ Policy ¦ Sociology ¦ Data

5 mesi

❤️

Tiziana Giammetta

Artista Contemporanea | Esperta in creatività | Appassionata di Formazione Continua e Coaching | non ancora Psicologa ma in formazione | Esperta di Stable Diffusion come strumento di supporto per l'Arte

5 mesi

oggi, altrove, è uscita una discussione sulla frase 'ai miei tempi', frase che fa percepire che la persona che la utilizza si sente parte di un tempo altro e non di questo, come se fosse un prodotto scaduto. Visto che ne hai fatto l'incipit del tuo post, cosa ne pensi?

Per visualizzare o aggiungere un commento, accedi

Altre pagine consultate