L’Europa al voto (in un clima plumbeo)
L’Europa che si appresta a votare il rinnovo del Parlamento di Strasburgo è avvolta da sentimenti cupi. La tensione alla rivoluzione evidenzia lo stato esacerbato del quadro politico, la percezione della non praticabilità delle soluzioni mediate e riflessive e la necessità, per risolvere i problemi e imprimere il senso di cambiamento, di ricorrere a soluzioni radicali. L’impulso al mutamento radicale colpisce innanzitutto due Paesi: la Francia e l’Italia
Le dinamiche europee
Il vento del risentimento spira lungo le pianure e le coste d’Europa. Nel corso degli ultimi cinque anni il clima sociale, nelle viscere delle società europee, ha subito un mutamento considerevole, portando alla luce tratti radicalizzati e acrimoniosi. Rabbia, tensione radicale, spinte alla rivolta, salvaguardia e tutela di se stessi contro gli altri (il famigerato “prima noi”), ma anche spinte respingenti verso gli immigrati, senza dimenticare il consolidato astio di parte delle popolazioni contro le classi dirigenti, sono i germi sociali che stanno attraversando il vecchio continente, in primis i segmenti più colpiti dalla crisi, i ceti popolari e quelli medi in caduta.
Lo sguardo, complessivo e tangenziale, su che cosa sta accadendo nella pancia dei sei principali paesi dell’Unione (Italia, Spagna, Francia, Germania, Polonia e Austria - le realtà nazionali che esprimono la maggioranza dei seggi al Parlamento europeo), porta alla luce le contraddizioni e le velature che stanno attraversando il nostro continente. Realizzata da SWG in collaborazione con alcuni importanti istituti di ricerca indipendenti europei (Sigmados in Spagna, Ifop in Francia, Insa Consulere in Germania e Austria, nonché Ibris in Polonia), la ricerca ha esplorato i sentimenti profondi e le pulsioni emergenti che attraversano i diversi Paesi. L’indagine, realizzata a fine febbraio 2019, ha coinvolto 10.100 cittadini europei, di cui 4.000 tedeschi, 1.000 austriaci, 1.100 polacchi, 1.000 spagnoli, 1.000 francesi e 2.000 italiani.
Lo stato d’animo che aleggia nei Paesi
L’acredine è un sentimento denso che, a vario titolo e in mutevoli forme, coinvolge quote importanti della popolazione dei diversi paesi europei, specie dei ceti medio bassi e popolari. Rabbia, disgusto e paura, unite insieme, rappresentano le pulsioni che accomunano il 49% dei cittadini francesi (ma il dato sale al 55% tra i ceti popolari d’oltralpe), il 42% dei polacchi, il 35% degli spagnoli (tra i ceti popolari il livello di acredine salta al 42%), il 32% degli italiani (40% tra i ceti medio bassi). Il clima in Germania e Austria fa registrare, invece, tonalità meno acute. In queste due nazioni i sentimenti di acredine si fermano, rispettivamente, al 26% e al 25%. Anche in queste realtà, tuttavia, i ceti popolari mostrano una decisa recrudescenza dei sentimenti negativi rispetto la media della popolazione, con circa il 33% di persone che prova pulsioni di rabbia, paura e disgusto.
L’indagine ha scandagliato, complessivamente, dieci differenti emozioni: cinque positive (speranza, attesa, fiducia, serenità e felicità) e cinque negative (rabbia, paura, disgusto – i sentimenti di acredine – nonché tristezza e delusione). Il quadro che emerge mostra la mappa di un’Europea avvolta dai sentimenti cupi. L’87% delle persone in Francia prova emozioni negative; in Spagna le pulsioni negative sono all’86%, mentre in Polonia arrivano al 67%; in Italia al 63% e in Germania toccano quota 61%. Solo in Austria le sensazioni negative sono maggiormente equilibrate rispetto a quelle generate dalle emozioni positive, con il 53% sul fronte grigio e il 47% su quello più roseo.
Tra riforma e rivoluzione
Un ulteriore test per cogliere lo stato d’animo che aleggia nelle viscere delle opinioni pubbliche europee è quello che ci offre l’indicatore “riforma o rivoluzione”. Si tratta di un vero e proprio termometro della febbre che alberga nei corpi sociali di una nazione. La tensione alla rivoluzione evidenzia lo stato esacerbato del quadro politico, la percezione della non praticabilità delle soluzioni mediate e riflessive e la necessità, per risolvere i problemi e imprimere il senso di cambiamento, di ricorrere a soluzioni radicali e non mediate. L’impulso al mutamento radicale colpisce, innanzitutto, due paesi: la Francia e l’Italia. E, in queste due realtà, riguarda, soprattutto, i ceti medio-bassi, le classi popolari e disagiate. Nelle viscere della nazione guidata da Macron, il 39% delle persone (ma, innanzitutto, il 52% dei ceti popolari) opta per la soluzione rivoluzionaria. Il quadro è simile lungo la nostra penisola con il 38% dei ceti popolari schierata su una soluzione radicale (il dato medio si ferma al 28%). In Germania la spinta radicale coinvolge un quinto della popolazione e il 27% dei ceti popolari, mentre in Polonia, a fronte di un 14% di tensione rivoluzionaria nella media della popolazione, tra i ceti popolari il dato sale al 24%. In Spagna e Austria, infine, le pulsioni radicali sono limitate e oscillano tra il 13% e il 14%.
Tra comunità aperta e comunità chiusa
L’opinione pubblica europea sta ricodificando, lentamente, l’asse politico sui cui si determina il confronto politico, transumando dal vecchio asse che scorre da destra a sinistra, a un nuovo asse che, pur comprendendo in parte destra e sinistra, si caratterizza in modo peculiare per l’opposizione polarizzata tra una società aperta – dal tratto inclusivo - e una realtà protettiva – dal tratto serrante e incentrata sull’affermazione del “prima noi”.
Un dato utile, per iniziare a testare tale dinamica, è rappresentato dagli atteggiamenti verso l’immigrazione. In Polonia (63%), Austria (58%) e Francia (54%) la maggioranza della popolazione è favorevole a politiche di chiusura netta verso i migranti. In Germania (48%) e Italia (39%) le pulsioni sono forti e presenti, ma non coinvolgono ancora la maggioranza assoluta della popolazione. Il dato, tuttavia, non deve ingannare. Nel cuore di questi due paesi, nei ceti popolari, i moti anti-immigrati sono marcati e, ad esempio in Italia, arrivano toccate il 49%. Solo in Spagna gli atteggiamenti di chiusura sono più ridotti, con solo il 25% dell’opinione pubblica schierata su soluzioni respingenti.
Il quadro muta e s’inasprisce ulteriormente se analizziamo il favore verso ipotesi e scelte politiche che privilegiano la difesa degli interessi dei nativi, il declamato “prima noi”. Solo in Spagna la spinta primatista si ferma al di sotto della soglia della maggioranza assoluta della popolazione (48%), mentre negli altri paesi va ben oltre il sessanta per cento. Si parte dal 64% che vibra tra gli italiani, per salire al 65% tra i tedeschi, al 78% tra gli austriaci, al 79% tra i francesi, fino ad arrivare all’80% tra i polacchi.
Come si può osservare l’ago della bilancia, lungo l’asse società aperta e chiusa punta decisamente verso orientamenti serranti e difensivi e, in tutte le realtà europee, sospinge e sostiene politiche, scelte programmatiche e governative che propongono una visione di futuro ancorata alla strutturazione e al consolidamento di comunità protettive, difensive, autocentrate sulla tutela dei nativi e incardinate su politiche sicurtarie. Una dinamica che che nasce da lontano, che è il portato finale di trent’anni di ricette liberiste, di finanza globale e di elogio dell’incertezza. Le persone scelgono i partiti e le politiche in base alla promessa di futuro che offrono (come sottolineava già quarant’anni fa Mitterrand) e oggi le popolazioni europee non vogliono sentir parlare solo di società smart, di precarietà e flessibilità, ma ambiscono a un po’ di tregua, a una maggiore solidità esistenziale e a una più equilibrata distribuzione della ricchezza e delle opportunità.
Contro le élite
L’ambizione a una maggiore equità distributiva non nasce per caso. Essa è il frutto anche di un altro fallimento: quello delle classi dirigenti europee. In tutti i paesi analizzati, lo iato tra le classi popolari e le élite si è trasformato in una vera e propria faglia sociale, portando con sé uno strutturale senso di fastidio e sfiducia verso le classi dirigenti (politiche o economiche). In quasi tutte le nazioni, la frattura popolo-élite coinvolge i due terzi dell’opinione pubblica. Una tendenza in cui svettano la Francia (in cui la spaccatura coinvolge l’81% dell’opinione pubblica) e la Spagna (73%). In Italia, Germania e Austria lo scontro è avvertito, rispettivamente, dal 67%, 66% e 64% della popolazione, mentre solo in Polonia il quadro è leggermente meno bollente, con la popolazione che si divide nettamente a metà.
Sovranisti o populisti?
Sovranismo e populismo, nell’accezione divulgativa sono spesso utilizzati come sinonimi, come processi sovrapponibili. In realtà è così solo in parte. I due ambiti, infatti, non sono sinonimi, sia per ragioni di contenuto, sia in termini di segmenti sociali che li originano. La ricerca realizzata nei sei Paesi europei ha portato alla luce un tratto interessante: il populismo è un fenomeno di chiusura difensiva e tutelante generato dalle tensioni che originano, innanzitutto, nelle classi popolari; il sovranismo, invece, è un orientamento serrante prodotto dalle dinamiche di autodifesa del ceto medio e dei segmenti sociali che rischiano di perdere i piccoli status conquistati.
Attraverso questa lente possiamo osservare che le pulsioni populiste sono forti in Francia e Italia (44% nei ceti popolari francesi e 47% in quelli italiani), mentre le sirene sovraniste sono maggiormente efficaci in Polonia, nel ceto medio austriaco (58%) e tedesco (54%), nonché in quello spagnolo (38%).
Le due sindromi hanno ovviamente molti elementi di sovrapposizione, ma è interessante notare le differenti motivazioni: i populisti uniscono alle pulsioni tutelanti l’avversione per le élite nazionali; i sovranisti, invece, hanno una moderata critica anti-élite e ambiscono a soluzioni che salvaguardino i privilegi e la posizione sociale della middle class e dei segmenti sociali limitrofi.
E…l’Europa?
Infine, uno sguardo al tanto vituperato ruolo dell’Unione Europea. La Brexit, con le sue attuali dinamiche caotiche, avventuriere e incerte, ha segnato un punto di svolta nelle opinioni pubbliche europee. Le pulsioni a lasciare l’Unione si sono radicalmente ridotte e ricomposte. Oggi l’exit è auspicata solo dal 17% dei francesi, dal 13% degli austriaci, dall’11% dei tedeschi e dal 7 o 8% d’italiani, polacchi e spagnoli. Se l’uscita dall’Europa non è più una frontiera, l’approdo agli stati uniti d’Europa è quanto mai poco agognato. Solo tra gli spagnoli la quota arriva al 30% dell’opinione pubblica, seguiti a ruota dagli italiani (28%). In tutti gli altri paesi, l’orizzonte a forte unificazione interessa meno di un quinto della popolazione.
Se gli stati uniti d’Europa non sono una prospettiva, la maggioranza delle persone dei diversi paesi (escluso i polacchi) è favorevole a ipotesi mediane, che consentano, pur mantenendo la distinzione e il ruolo dei singoli stati nazionali, un rafforzamento del processo d’integrazione continentale, almeno negli ambiti delle politiche economiche e fiscali. Su questa prospettiva sono schierati il 67% degli spagnoli, il 61% degli italiani, il 59% dei tedeschi e il 57% degli austriaci. Più freddi i francesi, che si fermano al 50%, mentre i polacchi si bloccano al 45%.
Uno sguardo lungo: le sfide del futuro per l’Unione
Il mutamento del clima politico e sociale e le dinamiche in atto nei sei principali paesi dell’Unione offrono alcuni spunti di riflessione e portano alla luce almeno cinque sfide, che possiamo catalogare come le 5 “R”.
La prima va sotto il titolo di Ricucitura dei “social divide” e del malessere dei ceti popolari. Occorre dare risposte, concrete e veloci, alle spinte ribelliste e alle pulsioni serranti di un’opinione pubblica che è stata ferita dalla crisi economica e dal fallimento del trickle down (la teoria liberista del date ai ricchi e questo porterà benessere anche ai ceti popolari).
La seconda sfida è quella che pone al centro la necessità di Rigenerare il sogno europeo: sviluppo sostenibile, integrazione sociale e responsabilità collettiva. La terza “R” è quella che parla di Ricostruire un senso di comunanza di destino fra i paesi e i popoli europei, nella consapevolezza, per usare un tema caro a Jurgen Habermas, che “occorre sviluppare un nuovo senso di giustizia, consci che non si può pensare di tenere insieme società complesse, senza sviluppare un universalismo sensibile alle differenze”. La quarta dimensione è legata alla necessità di Ritessere una rete di fiducia tra i popoli e le classi dirigenti, riducendo le distanze e il senso di mancanza di visione di futuro che, in questi anni, ha caratterizzato le élite. Infine, il tema dirimente è proprio quello di un progetto di Europa in grado di Ridisegnare il futuro per i Paesi, per l’Unione, per le popolazioni, per i ceti meno abbienti. Le prospettive che si aprono con la robotizzazione, l’intelligenza artificiale e la quarta rivoluzione industriale, pongono le società europee di fronte al dilemma lapidariamente definito da Edgar Morin: “Una società può progredire in complessità solo se progredisce in solidarietà”.