Libano, una "lampada che non può essere spenta dal vento"
Ho vissuto in Libano sei mesi. Abbastanza per innamorarmene. Abbastanza per continuare ad averne nostalgia per sempre, a distanza di anni. Libano per me è sempre stato casa, una Calabria appena più esotica. La stessa indolenza, la stessa rassegnazione di certi calabresi che aspettano un sussidio, una pensione, un indennizzo... ma unita a un'operosità, un'intelligenza, una generosità e a guizzi di repentina furbizia che hanno garantito a milioni di libanesi un futuro lontano dalla loro patria, imparando lingue e culture diverse dalla loro senza mai smarrire la propria. Perché sei libanese per sempre, come sei calabrese per sempre. Lo stesso senso sacro dell'ospitalità e la stessa devozione per il cibo (la cucina libanese è una delle più raffinate del medioriente), che si scioglie nella cremosità di un hummous, ti punge con l'agro del limone nel tabbuleh e ti commuove con il sapore sontuoso del miele e dei pistacchi... di dolci troppo dolci da essere serviti in piccolissime porzioni, perché non puoi farcela a digerire tutta quella dolcezza.
Gli stessi panorami, la stessa possibilità di passare in mezz'ora dalla costa alle cime montuose dove da millenni i cedri scrutano il mare, invitante come le donne libanesi. Così a Beirut convivono palazzi con ancora i colpi dei mortai e i centri commerciali modernissimi e insulsi che hanno soppiantato gli edifici storici (qualcosa sopravvive nella centralissima via Hamra). Una bramosia di futuro che cancella il passato spudoratamente, senza malinconia.
La stessa che poi ritrovi però intatta nelle musiche e nelle canzoni (con quell'arabo mellifluo punteggiato di continui habibi, "caro, amore" che a me ricorda irrimediabilmente i neo melodici napoletani!), nei tramonti, nel mare di Jbeil (Byblos) il porto fenicio, che è la città più antica del mondo. Il Libano dei polverosi villaggi del Sud che ho girato a bordo di uno scassato VM con il contigente Unifil, con i soldati indonesiani della mia unità... i sorrisi dei bambini che parlano inglese già da piccoli e parlano con gli occhi qualsiasi lingua.
Le cerette con lo zucchero e le sopracciglia scolpite con la tecnica del filo, che qui così comandano le femmine... con la liscezza della pelle e uno sguardo intenso che non lascia scampo. L'aroma di arghilè che ti colpisce la gola e annebbia la vista perché forse non si può guardare tutta questa bellezza senza un filtro, una cortina di fumo dagli aromi improbabili, da scegliere sul menu come fossero gelati. I colori così calabresi (mediterranei in realtà): lo stesso azzurro di cielo e mare, il bianco delle nuvole, la stessa luce abbacinante in cui sono cresciuta e che mi fa diffidare dei Paesi in cui non è la stessa. E allora gli "engagement" (come si chiamano gli incontri con le autorità locali nel linguaggio militar-burocratico dell'Onu) non sono un'incombenza da "smarcare" sull'ordine del giorno, ma incontri con l'altro, inviti a pranzo... sorrisi complici e irridenti verso il collega militare che non riconosce le giuggiole e le scambia per olive (ma perché ce le servono con il caffè?). Avete mai pensato perché si dice essere "in brodo di giuggiole"? Perché questi frutti simili a grosse olive hanno una polpa dolcissima... una beatitudine, per l'appunto.
A distanza di anni abbiamo un gruppo su whatsapp che si chiama come un tipo di fumo, la "shisha", dove ci raccontiamo le nostre esistenze lontane chilometri (dalla Malesia all'India), ma unite da quel Paese.
Raccolgo in un abbraccio tutti i miei amici libanesi che continuano a vedere soffrire terribilmente il loro Paese...
Gloriana che mi ha insegnato a balbettare qualche parola di arabo (abbastanza però per passare per una locale, dato il mio imprinting e i colori da terrona!)
Fatma che mi ha truccato (le donne libanesi hanno un'attenzione spasmodica per tutto quello che è estetica, fino a spendere cifre inaudite in chirurgia plastica), inorridita per la pochezza dei miei rossetti e delle mie matite smozzicate e per l'imperdonabile assenza di fondo tinta.
Charlie, il tassinaro del contingente italiano che parla cinque o sei lingue e tutti i dialetti italiani, che mi portava a mangiare shawarma nel caos delle strade di Beirut, dove non ci sono indirizzi ma tutti ti trovano lo stesso.
Mireille ed Elie che mi hanno fatto scoprire il loro meraviglioso Lubnan (nome che deriva dall’aramaico “laban” (“bianco come il latte”, il suo significato) riferito alle cime innevate della catena montuosa Monte Libano) dalle coste alle rovine maestose di Baalbek ricoperte di neve.
Catherine che mi ha insegnato a fare l'hummous. E tutti gli altri che non menziono, ma che sono nel mio cuore ancora di più in questo momento tragico.
Ho provato a riassumere tutto con una manciata di foto (comprese quelle del mio primo viaggio in Libano, nel 2009, proprio al porto in barca e sullo sfondo la zona in cui si è verificata l'esplosione), ma è impossibile.
Lo faccio con le parole di di Khalil Gibran:
"I libanesi sono le lampade che non possono essere spente dal vento, e il sale che rimane incorrotto attraverso i secoli.
Cosa rimarrà del vostro Libano dopo un secolo? Ditemelo! A parte le vanterie, le bugie e la stupidità?
Pensate che la vita accetterà un indumento di pezze cucite assieme come vestito?
In verità, vi dico che una pianta di olivo sulle colline del Libano sopravviverà a tutte le vostre opere; che l'aratro di legno trainato dai buoi nelle fessure del Libano è più nobile dei vostri sogni e aspirazioni”.
Shukran ktir, Lubnan!
Temporary Manager | Agente del cambiamento | Plant Manager | Operations Manager
4 anniRosaria, hai saputo descrivere il Libano che hai conosciuto con una maestria che mi ha fatto palpitare il cuore. In un modo o nell'altro vogliamo essere vicini ad un popolo che sta affrontando le conseguenze di un tal disastro. Auspico che davvero il Libano sia lampada che resiste al vento, forza!
CEO at DHH Spa, Seeweb srl
4 anniBellissimo racconto Rosaria, ci porta tutti lì affianco ai libanesi in questo disastro che li ha colpiti.