Libia: Crisi cronica...?
Milano Fondazione Corriere della Sera e ISPI 11 settembre 2018

Libia: Crisi cronica...?

Interessante incontro organizzato dalla Fondazione Corsera e ISPI sulla situazione in Libia. 

Qualche riflessione sull’importanza dei principali interventi e sui concetti che hanno fatto da filo conduttore e uno spunto.

Premetto che negli ultimi giorni la situazione è già modificata rispetto allo stato di fatto di cui i relatori hanno commentato. Questo è indicativo dell’instabilità della situazione sul terreno ma anche a livello internazionale. Lorenzo Cremonesi in diretta da Tripoli commentava quanto possa cambiare anche l’idea che il reporter stesso ha sul territorio in funzione della sua fonte che ha e la stessa cosa va considerata anche per i partecipanti al dibattito.

E’ quindi chiaro che la decisione delle Nazioni Unite di non indicare il 10 dicembre come data ottimale per le elezioni da tenere in Libia cambia radicalmente gli equilibri che si erano realizzati fino alla scorsa settimana.

La Francia deve fare ammenda e la posizione del Governo Italiano sembra rafforzarsi, la stessa presa autonomamente qualche settimana fa dal nostro Ambasciatore Perrone proprio su questo argomento. L'esternazione che gli è costato il temporaneo allontanamento dalla sede per motivi di sicurezza, torna a essere però la più quotata, forse perché al di là degli schieramenti di appartenenza era frutto dell’attenta situazione sul terreno. Una situazione che non appare ancora oggi tale da garantire che libere elezioni si possano svolgere in completa sicurezza. 

Ma altrettanto importanti sono state le dichiarazioni del nostro Governo "di lasciare la responsabilità ai Libici di essere artefici del proprio futuro”. Proprio questo è uno degli elementi che chi conosce la Libia considera uno dei più importanti. La difficile libertà costruita dopo il 2011 ha avuto un elevato costo di giovani vite umane, la ricerca di un’autonomia decisionale, lontana dalle influenze dei Paesi che hanno partecipato a vario titolo alla cacciata di Gheddafi, è uno degli elementi importanti che sottostanno alla fierezza del popolo libico.

Certo che conta molto, come afferma lucidamente Arturo Varvelli dell’ISPI, la capacità di coinvolgere in un processo di smilitarizzazione le varie milizie ed è fondamentale che in un prossimo futuro si torni ad una situazione in cui l’unico detentore dell’uso della forza debba essere lo stato e non più gruppi organizzati. 

Un altro elemento che è apparso con rilievo nelle cronache locali è la gestione oscura delle finanze libiche, dei movimenti di valute straniere che continuano a creare, con i differenziali di cambio fra mercato ufficiale e mercato nero, situazioni di vantaggio per chi è vicino al potere e alle banche, sia quella centrale che le private. Fino a quando non si bloccherà questa discrepanza e non si avrà un unico rapporto di cambio continueranno a esistere posizioni di vantaggio poco democratiche. Anche il passo fatto l’altro ieri dal Governo Serraj su questo tema può essere migliorato, l’avere infatti ipotizzato di riservare un tasso di cambio dinaro libico/dollaro americano intorno a 4,30 per i privati e 1,35 per il pubblico non è infatti la migliore soluzione definitiva. 

Vale la pena di ricordare che questo balletto di cambi permette, insieme allo sfruttamento dei prezzi reali sui beni sussidiati, in particolare la benzina, di accantonare importanti ricchezze da parte di chi detiene il potere (in particolare alcune milizie e uomini vicini al potere) e contribuiscano anche all’importante sviluppo del business che ruota attorno ai migranti provenienti dal Corno d’Africa, dal Medio Oriente e dall’Africa sub-sahariana. La gestione di questo business rimane così in mano a gente senza scrupoli, non tanto diversi dalle nostre mafie, camorre, né per struttura d’impresa né per comportamenti, che non hanno certo a cuore la tutela dei diritti umani.

Le ultime tre considerazioni sono di carattere informativo.

E’ suonato molto strano infatti a chi conosce e vive la realtà libica l’affermazione che in questo momento il paese soffre una crisi importante dal punto di vista della sua primaria impresa pubblica - l’estrazione e l’esportazione di crude oil e di gas - quando sulla stampa locale - Libya Business News - viene felicemente pubblicato dalla NOC (National Oil Corporation) il dato che a settembre 2018 sono stati superati i livelli di produzione di tutto il 2017, con un livello di estrazione intorno ai 7/800 barili giornalieri e ricavi per il 2018 di 13,6 miliardi di dollari e di aver battuto il record di produzione dal 2013.

Come anche che in Libia non ci sia un’impresa privata. Un mio caro amico libico mi ricorda, quasi settimanalmente, che se in Libia non ci fosse stata l’impresa privata in questi anni, soprattutto dopo il 2011, il Paese sarebbe morto. La Libia non è più solo quello scatolone di sabbia di cui si legge nei libri di storia, ci sono Gruppi privati operanti nei più disparati settori che vantano fatturati di tutto rispetto, vicino o sopra al miliardo di dollari annui. 

Un’osservazione più attenta ai flussi commerciali verso l’area evidenzierebbe come le importazioni da Malta per determinati volumi di merci non possano essere destinate solo al mercato dell’isola o anche che importanti impianti produttivi realizzati in Turchia da marchi italiani molto noti - Barilla e Ferrero - servano per soddisfare la domanda che arriva da Tripoli, Misurata e Bengasi.

Insomma la Libia non è solo il fenomeno dei Migranti, gli aiuti e le attenzioni internazionali non possono dimenticarlo come Paese nella sua interezza, con i suoi consumi che sono quelli tipici di un Paese che importa per il 95% del suo fabbisogno, con una nuova classe imprenditoriale che si attiva per costruire un’impresa privata ancora più forte e diversificata. Prova ne è l’agenda delle Exhibition in programma da fine anno e per il 2019 alla Fiera Internazionale di Tripoli.

Lo spunto è per i nostri interlocutori del Governo che la scorsa settimana hanno pensato, forse un po' in ritardo di cucire i rapporti con il Feldmaresciallo Haftar. 

Ma se fino ad oggi l’interlocutore privilegiato è stato il Primo Ministro Serraj e non le Milizie locali che lo proteggono e lo tengono sotto scacco, perché si è preferito parlare con l’Uomo Forte, capo dell’Esercito dell’House of Representatives - Governo eletto con le regolari elezioni del 2012 - e non con il Presidente dello stesso? Non si rischia così di rafforzare ancora di più la sua figura, sminuendo l’omologo del Governo di Serraj nell’est del Paese? 

Dr. Luca Bargilli


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