L’ultimo mistero di Amelia Earhart
La leggenda dell’aviazione civile, la donna capace di infrangere ogni record, è svanita nel nulla 88 anni fa nel corso dell’impresa con cui voleva chiudere la carriera: un volo intorno al mondo. Ora una spedizione avrebbe individuato i resti del suo aereo
Amelia Earhart scompare la notte del 2 luglio 1937: era partita da poco dalla Nuova Guinea diretta all’Isola Howland, un fazzoletto di terra nel mezzo dell’Oceano Pacifico, ma alla metà del volo ogni comunicazione si era interrotta, facendo perdere per sempre ogni traccia di “Lady Lindy”, come la chiamavano accostandola a Lindbergh, il pioniere dei voli transoceanici.
Sono passati 88 anni da quel giorno, quando il mondo trattiene il fiato e il presidente Roosevelt autorizza le ricerche mettendo a disposizione 4 milioni di dollari e 66 aerei della marina. Ma dopo cinque giorni di viaggio, quando i militari sbarcano sull’Isola Howland, di Amelia non c’è traccia, e intorno si allarga un infinito fatto di 250mila miglia quadrate di oceano contro cui c'è ben poco da fare. Se non tornare indietro e pregare.
Nel tempo le teorie, le ipotesi, le ricostruzioni e le analisi sempre più sofisticate sulla rotta e le possibili anomalie si sono accavallate, senza mai arrivare alla risposta del dubbio che resta in aria da quasi 90 anni: che fine ha fatto Amelia? Per qualcuno lei e il suo copilota erano arrivati in tempo per il pranzo di una tribù di cannibali, secondo altri l’aereo era stato abbattuto dalle contraeree giapponesi perché sospettato di spionaggio. Tra il 2002 ed il 2017 una delle spedizioni più attrezzate si era messa in testa di ritrovare almeno i resti dell’aviatrice per darle l’onore di una sepoltura, ma invano.
Solo adesso, grazie alla “Deep Sea Vision”, una spedizione finanziata con 11 milioni di dollari da Tony Romeo, ex ufficiale dell’intelligence dell’US Air Force, il mistero potrebbe essere risolto una volta per tutte: una foto scattata lo scorso dicembre da un drone sottomarino a 5.000 metri di profondità in un tratto di Pacifico fra l’Australia e le Hawaii, a 160 km dall’Isola Howland, mostrerebbe dei resti che molto verosimilmente sembrano la coda di un aereo. E le probabilità che si tratti realmente del bimotore Lockheed 10-E Electra di Amelia Earhart si alzano, sapendo che in zona non si ha mai avuto notizia di nessun altro incidente aereo.
Se mai fosse vero, sarebbe l’ultimo capitolo nella storia di una delle più iconiche aviatrici di sempre, una donna nata nel 1897 nelle campagne del Kansas che a 10 anni, leggendo sui giornali le storie di donne che sempre di più “invadevano” mestieri da maschi, aveva sentito suonare una sveglia nella testa, quella che tocca solo ai più grandi, quelli che il destino ha scelto per scrivere la storia.
Quale sia la sua strada Amelia lo capisce dieci anni dopo, quando durante una fiera a Long Beach, in California, sale insieme al padre su un aereo per fare un giro di prova. È l’appuntamento con il destino, il momento esatto in cui la strada si illumina e diventa chiara la missione per cui Dio l’ha mandata in terra: perdersi fra le nuvole, dove il sole diventa più forte e il mondo è una cartolina panoramica. E diventare un esempio che sappia ispirare il mondo intero.
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Ma Amelia è una donna, e certe cose non sono facili. Per pagarsi le lezioni di volo fa di tutto, riuscendo anche ad ottenere un prestito per comprare a suon di cambiali “Canary”, un vecchio aereo usato color giallo canarino che le basta per spingerlo a 4.000 metri e diventare la prima donna della storia ad arrivare così in alto.
L’occasione vera arriva nel 1928, quando il pilota Wilmer Stultz le offre un posto al suo fianco per un volo sull’Atlantico. Non è altruismo, ma un’abile mossa di marketing: in quegli anni, spinta dalla trasvolata in solitaria che ha dato la fama e i denari a Lindbergh, c’è più gente in cerca di gloria a girare in aria di quanti restano a terra ad aspettare che tornino. E una presenza femminile a bordo rende più appetibile la notizia. Ma Amelia è una donna, e vivaddio, certi calcoli a volte diventano più difficili: quando atterrano in Galles, 21 ore dopo, gli onori sono tutti per lei, mentre Stultz schiuma rabbia in un angolo, completamente dimenticato dai flash dei fotografi.
Il destino di Amelia è pronto e allenato: nel 1932, cinque anni dopo l’impresa di Lindbergh, parte per un volo in solitaria sull’Atlantico e malgrado il maltempo la costringa ad atterrare in Irlanda prima del previsto, si porta a casa un altro paio di record e una popolarità che ormai non conosce confini. Amelia Earhart diventa un’eroina, un simbolo dell’emancipazione femminile, una donna che sa fare cose che sarebbero difficili perfino per gli stessi uomini, che non sapendo come smorzare l’invidia riempiono i giornali di titoli sibillini: “È brava, ma saprà anche fare una torta?”. Come a dire donna eri e donna resti, chiamata comunque ad occupare un gradino più in basso nella piramide evoluzionistica del genere umano.
Ma Amelia, letteralmente, se ne fotte. E arrivata sulla soglia dei 40 anni, decide di chiudere una carriera nell’alto dei cieli che ha già trasferito il suo nome fra i padri (e le madri) dell’aviazione civile, con un’impresa epica: diventare la prima donna a fare il giro del mondo in volo. Il sigillo in ceralacca ad anni di coraggio, tenacia e resistenza, ma anche un’ultima occasione per salutare da vicino le nuvole, che tante volte le avevano fatto compagnia quand’era sola in mezzo ad un nulla dipinto di blu.
Parte nel giugno del 1937, con al fianco Fred Noonan. Ma poco prima di decollare, quasi per una premonizione, lascia in casa una lettera per il marito in cui lo ringrazia per gli anni di sacrifici e la solitudine a cui aveva costretto anche lui. Conclude dicendo di essere perfettamente consapevole che ogni nuovo volo è un’incognita e insieme al paracadute c’è sempre una cassa piena di pericoli, guasti e variabili fisse che può aprirsi da un momento all’altro. Ma ha sempre accettato di caricarla, pur di fare quello per cui aveva capito di essere nata.
E' proprio il marito, l'editore George Putnam, ad avere il cuore zeppo di rammarichi: il più, nell'ultimo viaggio di Amelia, era ormai stato fatto. L’aereo aveva già coperto 22mila miglia, ne mancavano solo 7000 per arrivare alla fine e tornare a casa, da lui, ancora una volta con la cassa dei pericoli intatta. Ma lassù quel giorno qualcuno aveva deciso che era abbastanza, e andava bene così.